Capitolo 12.

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"La vita ti chiede soltanto la forza che possiedi. Solo un'impresa è possibile – non dover scappar via."

(Dag Hammarskjold)


Aprile, tre mesi dopo.

Ero riuscita ad evitare Erik Maxwell per tre magnifici mesi.
Dal nostro ultimo incontro, davanti casa dell'amica di Noely, non lo avevo più incontrato e sentito. Non avevo avuto il coraggio di scrivergli niente dopo aver letto il contenuto del biglietto che mi aveva lasciato, e non credo me lo avesse lasciato per sentirsi dire qualcosa, ma solo per farmi sentire uno schifo.

Janel ogni tanto mi parlava di lui. Mi aveva detto che mancavano ormai pochi giorni per l'inaugurazione del nuovo studio qui a Stowe, e che in quegli ultimi mesi era stato assorbito dal lavoro a tal punto che se lei riusciva a vederlo una volta ogni due settimane era anche tanto. Le scartoffie di cui mi aveva accennato si erano rivelate più lunghe del previsto, e avevano dovuto ritardare di qualche settimana l'apertura dello studio, nonostante lo usassero già per avviare alcuni progetti.

Durante quei tre mesi ero riuscita a fare un po' di ordine dentro me stessa. Si può dire che ero più serena. Il pensiero di Roy non mi annientava più tutte le sere, e sebbene ancora capitasse che Noely lo cercasse, stavo notando, con il trascorrere del tempo, che lei piano piano lo stava rimuovendo dalla sua vita.

Era doloroso essere consapevole di tutto questo. Più volte avevo cercato di contattare gli amici e i familiari di Roy per avere sue notizie, solo per il bene di Noely, ma nessuno sapeva niente. Roy sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Sparito. Risucchiato dalla terra.

«Mammaaa, muoviti o perderò la lezione di minigolf! Ci vanno tutte le mie compagne.» piagnucolò Noely, tirandomi per un braccio.

Controllai l'ora, e sospirai. «Abbiamo ancora tempo, piccola pestifera. Fai guardare qualche libro alla mamma, e poi andiamo, te lo prometto.»

«Ma hai guardato già un sacco di libri!» sbuffò, incrociando le braccia sul petto.

«Ascolta, dall'altro lato di questo scaffale,» le indicai delle poltroncine rosa, «c'è il reparto per bambini, dove puoi colorare e trovare anche dei libri carinissimi. Perché non vai, e quando torni, mi fai vedere quale libro ti vuoi portare a casa per leggerlo insieme?»

Con un sorrisetto furbo, batté il cinque, e andò dove le avevo indicato.

La bibliotecaria mi sorrise da dietro la sua scrivania, e io ricambiai il sorriso.

Feci per afferrare un libro di narrativa, quando una mano lo tirò dall'altro lato dello scaffale.

«L'ho preso prima io!» esclamammo all'unisono.

Qualcuno bisbigliò uno «Shhh!»

Quando guardai attraverso lo scaffale, e vidi un paio di occhi grigi penetranti e decisi, per poco non caddi all'indietro, mollando subito la presa sul libro.

Mi sembravano passati anni dall'ultima volta che li avevo visti. E non ero decisamente pronta per rivederli.

In pochi secondi mi raggiunse, accennando un sorrisetto.
In soli tre mesi era diventato, se poteva davvero succedere, ancora più bello. I capelli mossi scompigliati erano più lunghi del solito, un accenno di barba incolta faceva risaltare il colore dei suoi occhi e i suoi lineamenti sembravano più marcati. Soprattutto la mascella.

Era vestito in modo casual. Indossava dei semplici jeans a sigaretta sbiaditi, una camicia bianca con collo alla coreana, e un maglione grigio a coprirgli le spalle, legato sul collo.

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