Prologo.

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Il mondo spezza tutti e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati.
(Ernest Hemingway)

Settembre 2014

Un giorno, qualcuno mi disse che la vita è spesso imprevedibile, e pensai che forse, non fosse qualcosa di negativo.

Qualche giorno dopo, un'altra persona mi disse che per superare un momento difficile occorresse sbarazzarsi dei sentimenti negativi.

Circolano nell'aria, affermò.

Qualcun altro ancora mi spiegò che con la giusta cura di sé stessi, del proprio corpo, e del proprio spirito, i problemi sarebbero svaniti lentamente. "Perché sentirsi in pace con sé stessi, è l'unica soluzione", mi fu detto.

Col passare del tempo, capii semplicemente che partiva tutto dalla mia mente. E dal mio cuore.

Mia madre mi ripeteva sempre "Nulla pesa di più del cuore quando è stanco".

Ma spesso mi chiedevo perché nonostante un cuore fosse a mille pezzi, continuasse comunque a pesare come un macigno.

Stanca di quei pensieri, mi rigirai sul lettino dove ormai ero distesa da un bel po', e con fatica, mi appoggiai sul fianco sinistro. Sentivo dei passi nel corridoio, ma nessuno che si fermasse davanti alla mia porta.

Ero da sempre stata una che l'ansia la gestiva piuttosto bene. Ma in quel momento, abbandonata a me stessa, provai come un senso di vuoto. Come se mi sentissi davvero sola al mondo.

Guardai l'orologio sul mio polso, quello con il cinturino marrone consumato che mi avevano regalato i miei genitori per i miei sedici anni, e osservai per qualche secondo le lancette che ticchettavano velocemente. Erano passati cinquantacinque minuti, e ancora nessuno si era fatto vivo.

La stanza era buia, severa, dipinta con dei colori cupi sulle tonalità del grigio. Stare ferma stava diventando sempre più difficile, così come trovare una posizione che non mi facesse sentire una specie di ippopotamo. Non trovavo nient'altro da fare, se non osservare la lancetta dei secondi e i miei lunghi capelli castani che mi ricadevano sulle spalle, fin sotto il seno.

Niente telefoni, lì.

Niente libri. Niente riviste. Niente TV.

«Roy.» sussurrai.

Silenzio.

«Ehi, Roy.»

Un mugolio.

«Roy!» quasi gridai.

«Diamine, Florencia, che c'è?» borbottò, con la voce ancora impastata dal sonno.

«È passata un'ora da quando ci hanno detto di attendere,» mimai con le virgolette, «e ancora non si è visto nessuno. Sono stanca, e vorrei essere ovunque tranne che qui. Ho bisogno di riposare e stare possibilmente nella mia camera. Ho ancora tre interi capitoli di storia da studiare, e un saggio da...»

«Piccola.» mi interruppe, sistemandosi sulla sedia accanto al mio lettino. La stanza era in penombra, ma mi parve di vederlo alzare gli occhi al cielo. «Se potessi fare qualcosa, la farei. Ma come vedi non dipende da me. Sono impotente, e sono stanco anche io.»

Si alzò per stiracchiarsi, gettandomi un'occhiata esausta. I capelli biondo miele gli ricaddero sulla fronte, e con un gesto della testa ormai familiare, li spostò, sistemandosi il ciuffo con le dita.

«Ho bisogno di fumare una sigaretta.» si schiarì la voce, cercando probabilmente un balcone su cui uscire.

«Abbi un po' di pazienza, Roy. Non puoi lasciarmi qui da sola. Sono spaventata.» lo pregai, supplicandolo con lo sguardo.

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