Capitolo 24.

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"Non ci crederai, ma al mondo non sono poi molte le persone con cui si può parlare di sciocchezze."
(Banana Yoshimoto)

La vita non è fatta di momenti prevedibili. E per quanto noi esseri umani cerchiamo di convincerci che sia così, che alcune cose siano programmabili, in realtà è tutta una ruota che gira, un senso orario e antiorario che il nostro mondo decide di prendere a suo piacimento. E noi siamo semplicemente lì: a fare piani, progetti, a prendere decisioni più o meno buone, ad organizzare dei piani per la nostra vita, incuranti di quanto il destino in realtà si bleffi di noi, magari pensando "posso decidere di cambiare le carte in tavola quando più mi piace".

Sono sempre stata una persona che credeva nella forza di volontà. Quella per cui mi imponevo di reagire alle delusioni, di sorridere di fronte alle sconfitte, e di rialzarmi talvolta anche se controvoglia. Perché un po' tutti, a volte, abbiamo semplicemente bisogno di crollare, piangere, rompere qualcosa e arrenderci.

Ci serve. È necessario quasi quanto l'aria che respiriamo.

Perché poi è da lì che iniziamo a raccogliere i cocci rotti, a raccoglierci, e a ricostruirci, pezzo per pezzo, con il nostro tempo, con tutto quello che la situazione ne richiede.

Non c'è fretta. Non c'è un tempo giusto o sbagliato, per fare le cose. Non c'è tempismo. Perché quella ruota è sempre lì, pronta a girare nel senso contrario, o nel senso giusto, o in nessun senso.

E noi non possiamo farci proprio un bel niente, se non vivere.

Ero una fanatica di programmi e progetti idealizzati, già da quando ero una bambina di otto anni.

Avevo organizzato la mia entrata alle scuole medie, le amicizie che avrei avuto, gli anni del liceo e i corsi che avrei voluto seguire, la cerimonia del diploma e il viaggio che ne sarebbe conseguito, magari a Miami, o in Messico, come spesso accadeva. E poi sarei andata al college. Non puntavo a Yale, o Harvard.

Puntavo a qualcosa che mi facesse prendere la strada che credevo mi fossi iniziata a spianare già da quando andavo all'asilo.

Dopo il college avrei trovato un buon lavoro, uno di quelli per cui stavi sveglia fino a notte fonda, e poi, magari, dopo qualche anno, avrei trovato l'uomo giusto, un uomo bravo e paziente, spiritoso e con la testa sulle spalle. Ci saremmo sposati...e perché no, avrei fatto un figlio. Magari due.

Ma senza rinunciare alla mia carriera, alla mia personalità, e ai miei sogni.

Quando avevo visto le due lineette rosa sul test che la farmacista mi aveva venduto guardandomi storto, mi sedetti a terra, nel bagno di un vecchio bar quasi fuori città. Ero rimasta lì, da sola, seduta a terra, e mi era quasi parso di sentire una risata in sottofondo. Come qualcuno che si bleffava di me. Qualcuno che proprio sotto i miei occhi, prendeva la lista con i tutti i miei piani, i miei progetti, i miei sogni, e me la stracciava violentemente davanti al viso rigato di lacrime e delusione verso me stessa.

La creatura che portavo in grembo non era mai stato un impedimento per la mia vita, o per il mio futuro.

Non mi avrebbe portato a delle rinunce così drastiche, quell'esserino così piccolo e innocente. No.

Era la scottatura, la delusione, la commiserazione in cui ero caduta, dandomi dell'idiota, quando avevo capito quella volta, che il destino non c'entrava un bel niente.

Quella risata perversa, era il rimbombo della mia testa, che si prendeva gioco di me. Era lei che mi stracciava sotto il naso tutto ciò che ero stata fino a quel momento.

Come se mi dicesse Hai voluto giocare con il fuoco, adesso tieniti le scottature.

Per un periodo, avevo cercato di sfoggiarle al meglio, quelle scottature, sotto finti sorrisi, lacrime di gioia, e una forza che in realtà non era tale, ma solo un modo di sopravvivenza, per non cascare a terra e incolpare me stessa per l'ennesima volta.

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