Capitolo 29.

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Il più grande errore che si può fare nella vita è quello di avere sempre paura di farne uno.
(Elbert Hubbard)

Conobbi Roy Shelley all'età di sedici anni.

Non era quello che si poteva definire una bravo ragazzo, nonostante fosse figlio e nipote di gente di una certa importanza in politica.

Suo padre era il sindaco di Morristown, una cittadina confinante con Stowe, e prossimo per elevarsi di carica, puntando più in alto, come il padre. E Roy avrebbe dovuto seguire quella stessa strada. O almeno, fin quando non rimasi incinta, e decise di mollare l'università e ogni possibilità per il suo futuro. Una scelta che non avevo mai appoggiato.

E soprattutto, una scelta che la sua famiglia aveva sempre rimproverato a me, come se io ne fossi la causa. Un motivo in più per detestare me e mia figlia.

Ma la famiglia Shelley, oltre ad essere vile e ostile, era anche una famiglia con pochi valori, se non priva, che metteva al primo posto il denaro e il potere, e poi tutto il resto.

Motivo per cui in quel momento, mentre Roy mi guardava con sguardo implorante, chiedendomi, quasi supplicandomi, di accettare il suo assegno a... non posso davvero dire quanti zeri, dovetti fare due minuti di pausa mantenendo lo sguardo fisso su una macchinetta del caffè, per non alzarmi e rovesciarglielo direttamente sulla testa.

Lui e la sua famiglia, con i soldi avrebbero potuto comprare ed avere tutto, e dico proprio qualunque cosa.

Ma non mia figlia. Non il mio perdono.

E non per rimediare ai suoi errori di padre.

«Sei furiosa, e lo capisco, Flori...»

«Flor.» ringhiai, puntando lo sguardo su di lui.

«Okay, Flor.» sbuffò, passandosi una mano tra i capelli biondo miele. «Dicevo, è più che lecito che tu sia furiosa con me. E non mi aspetto che tu mi perdoni, o che tu faccia finta di niente. Mi sono comportato di merda, in primis come padre.»

«Ma no.» mi uscì fuori una risata sarcastica. «Io padri qua dentro non ne vedo.»

«Non esagerare.»

«Roy, è già tanto che io ti stia guardando in faccia senza vomitare. Per cui tira fuori le tue bugie, e poi lasciami andare e scompari di qui. Devo andare da Noely, e non voglio perdere altro tempo qui con te.»

Si alzò in piedi, prendendo a fare avanti e indietro per la sala. «Appena il dottor Fletcher mi ha chiamato, dicendomi che mia figlia era in queste condizioni, sono corso qui. Perché io le voglio bene. È mia figlia, Flor. Non puoi comportarti da bambina.»

«Da bambina. Capisco.» risi ancora. «Facciamo così...» mi alzai anche io in piedi. «Quando mi hai lasciato quel fottuto bigliettino in cui dicevi che la vita di famiglia non faceva per te, lì, Noely era tua figlia? Sai, perché da che mondo è mondo, i figli non si abbandonano! I figli si amano, si ascoltano, si rispettano, si coccolano. Non si abbandonano, Roy! Senza se e senza ma. Cascasse il mondo! Quindi fattelo dire, quella bambina chiusa in quella stanza d'ospedale, è figlia mia! L'ho cresciuta da sola, tu sei sempre stato una presenza fantasma, nella nostra vita. Veniva prima la tua famiglia, poi il tuo fottuto lavoro, poi i tuoi interessi, e poi solo Dio sa cosa! Quindi apri un fottuto vocabolario, e leggi il significato reale di cosa sia un padre, perché è tutto, tranne ciò che tu sei stato e che sei per Noely!»

Mi guardò sbalordito per un momento, e poi sospirò. «Hai finito? Tu e le tue scenate melodrammatiche da argentina?» bofonchiò, mettendosi le mani in tasca.

Dovetti prendere diversi respiri profondi per non arrivare alle mani. Stavo soffrendo troppo per Noely, per potermi preoccupare di quell'essere. Volevo andare via da lì, lontana da lui, e correre dalla mia bambina.

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