XVI.

146 13 9
                                    

Durante i nostri tragitti di ritorno da scuola, quando ero ormai verso la fine del mio terzo anno da liceale, mi accorsi che passavo gran parte della giornata con Alice. Così mi venne spontaneo fermarmi a guardarla.

-perché ti fermi? Ti ha colpito un fulmine?- mi chiese sorridendo.

-non lo so- risposi fissandola negli occhi con tutto il coraggio che avevo.

-non sai se ti ha colpito un fulmine?- mi disse lei ridendo. Poi notò che per la prima volta non ero arrossito a guardarla, così aspettò qualche secondo prima di ricominciare a parlare -non mi ami più?- mi chiese infine con voce spenta.

Le sue parole mi lasciarono senza fiato. Non sapevo proprio cosa risponderle, così restai muto per un tempo che nella mia mente sembrava infinito.

"Muoviti a dirle qualcosa, si potrebbe offendere" ripeteva una voce nella mia testa "svegliati, brutto stupido, così lei ti odierà".

-ma che dici?- furono le uniche parole che mi uscirono dalla bocca.

Lei allora mi guardò dall'alto dei suoi occhi lucenti, restando in silenzio. Poi fece cadere la sua borsa a tracolla sul marciapiede e venne a due centimetri dal mio viso, osservandomi con uno sguardo magnetico che, in tutta la vita, non ho trovato in nessun'altra donna. Era terribile starle di fronte quando ti scrutava l'anima in quel modo.

-ti ho chiesto se non mi ami più, per la prima volta da quando ci conosciamo non sei arrossito guardandomi negli occhi- disse con voce sottile, che non riuscivo a comprendere se fosse sottile come la lama di un coltello o come le fibre del suo cuore.

-perché mi fai questo?- le chiesi cercando di mantenere il mio sguardo contro il suo.

-perché senza il tuo amore io non ho niente- disse abbassando le palpebre e chiudendo gli occhi.

Sentivo che stava per cominciare a piangere, ma non avevo le forze, e neanche il diritto di sostenerla questa volta, perché a farla piangere, adesso, ero stato proprio io.

-lo sai che ci sarò sempre per te- le dissi nel tentativo di rincuorarla.

Lei tirò su col naso, come se avesse appena pianto dentro di sé per non farlo vedere al mondo. Io le diedi nuovamente un fazzoletto e lei lo accettò senza dire alcuna parola.

-vieni da me, adesso- mi disse con tono serio. Non era una domanda, ma un imperativo, un'ordine che ero costretto ad eseguire.

-a casa tua intendi?-

-sì- mi rispose mentre raccoglieva la sua borsa piena di libri dal marciapiede e iniziava a camminare.

Io la seguii a qualche metro di distanza, in silenzio, guardando gli alberi ai bordi della strada muoversi col favore del vento.

Mentre camminavo pensai che quella sarebbe stata la prima volta che andavo a casa di Alice da quando la conoscevo. Lei non era mai venuta a casa mia e io non ero mai andato nella sua. I nostri tragitti si concludevano sempre sulla soglia del suo cancello, posto poco prima rispetto al mio. Cosi io mi facevo gli ultimi metri di strada a piedi, in solitudine e con un silenzio ogni volta diverso da quello presente fino a pochi minuti prima, quando vicino a me c'era lei.

IL CADAVERE DI UNA FARFALLADove le storie prendono vita. Scoprilo ora