17 Inutili pentimenti

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Adesso Sveva era lì, insieme a lui. Avrebbe voluto dire qualcosa, una qualsiasi cosa, ora che gli era vicino come non mai, ma non le uscì nulla: in fondo si sentiva un po' stupida. In passato lo aveva maltrattato, costringendolo ad andare via, ora lo rivoleva indietro come fosse un giocattolo.
Forse Marco aveva ragione a trattarla così...
E intanto in macchina Lana si dimenava, non riuscendo a trovare la posizione giusta per sdraiarsi.

Faceva sempre così quando c'era Marco: senz'altro lo considerava il suo capobranco e quando c'era lui era tutta un'agitazione. Non avendolo potuto salutare questa volta, era più smaniosa del solito; ogni tanto lanciava dei mugolii così acuti da essere finanche fastidiosi.

Marco tuttavia era imperturbabile. La sua espressione era composta e allo stesso tempo indecifrabile. Neanche i latrati di Lana lo smuovevano. Cosa stesse pensando era un mistero per Sveva. Ormai erano quasi arrivati a casa; il cuore le batteva all'impazzata per l'emozione e avvertiva persino la sua accelerazione nelle tempie, come se battesse ai lati della testa e questa le stesse per scoppiare. Doveva dire qualcosa...

Fu Marco a spezzare il silenzio.

«Come stai, meglio?»

«Sì.»

«Devi scusare mia madre, ormai è irrefrenabile: dice tutto quello che le passa per la testa senza inibizioni. La vecchiaia...»

«"La vecchiaia è una brutta bestia: ti porta via tutto, tu cerchi di cancellare tutto, i suoi segni, gli acciacchi, ma lei ti cancella anche i bei ricordi, l'unica cosa che volevi mantenere nel cuore"», disse Sveva, ripetendo quasi a memoria le parole della vecchia madre.

«Lo ha detto anche a te? Lo diceva nonna. Alle volte sembrava un disco rotto, incantato. Ora anche mamma ripete le stesse cose.»

«Già, anche tua madre.»

Marco guardava nel vuoto. Ormai erano giunti.

Si era fermato davanti al cancello. I capelli, più lunghi, incorniciavano il suo viso, facendolo sembrare più magro del solito. Colpita da quanto sembrasse sereno, era consapevole che non avrebbe sopportato di riaprire vecchie ferite, pensieri non detti, parole dure, ma un filo di egoismo la portò a provarci: non voleva litigare ma semplicemente mettere da parte il passato, i rancori, i rimproveri e ricominciare da capo.

«Siamo arrivati», disse lui.
Lei non si mosse, non una parola. Deglutì. La paura si stava impossessando di lei.

Marco fece per scendere dall'abitacolo, ma Sveva glielo impedì, mettendogli una mano sul braccio.

«Aspetta, ti prego.»

«Dimmi.»

Sveva notò che Marco adesso giocava con il ciondolo delle sue chiavi, rigirandoselo nervosamente tra le mani.

«Io non saprei da dove incominciare...»

Di colpo tutto il discorso che si era preparata, tutte le cose che avrebbe voluto dirgli svanirono nella mente, offuscata dai troppi pensieri.

Marco si girò a guardarla intensamente: le guardava la fronte, poi da lì passò agli occhi e poi alle labbra.

«Mi manchi.»

Ecco, l'ho detto, pensò.

Lui non parlava. Abbassò nuovamente lo sguardo su quel ciondolo, come se dallo stesso potesse trarre una qualche risposta. Non un movimento, una parola. Corrugò la fronte, poi le diede una rapida occhiata. Lo sguardo accigliato, ora, rendeva i suoi occhi piccoli piccoli. Le sue spalle, grandi, forti, sulle quali Francesca spesso si era arrampicata, e su cui, di sovente, lei aveva poggiato il capo, per sognare, per riposare, adesso si giravano, deprivandola di ogni meritevole considerazione.

L'incertezza di Sveva.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora