capitolo quarantacinque

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Trost, 850. Cosa ci faccio qui? Come ci sono arrivata? Sono qui, ma non dovrei esserci.

Mikasa abbassò lo sguardo, le sue mani stringevano l'impugnatura delle lame e l'indice era ben fermo sul grilletto del dispositivo di manovra tridimensionale.

Intorno a lei la battaglia infuriava violentemente, l'odore acre del sangue le pungeva il naso facendole venire le lacrime agli occhi, i cadaveri smembrati erano stai dati in pasto ai corvi.

I tetti delle case del distretto di Trost si distendevano come un mare di tegole sotto i suoi occhi, alcuni erano stati sfondati dalla pioggia di detriti dovuta alla breccia causata dal Gigante Colossale.

Perché sono qui? Eren? Armin?

Uno dei suoi compagni del centoquattresimo stava davanti a lei, si protendeva, urlava, piangeva, ma non riusciva a liberarsi dalla stretta nella quale un titano l'aveva ingabbiato.

Come si chiamava? Proprio non riusciva a ricordarselo.

Perché viene divorato davanti a me?

Voleva muoversi, fare qualcosa come ─ supponeva ─ le stava supplicando di fare il suo compagno, ma non riusciva a fare un passo, come se fosse sepolta nella sabbia fino alla vita.

C'è qualcosa che non va, pensò e poi capì. La scena si stava svolgendo nel più totale silenzio, il ragazzo gridava, ma della sua voce non c'era neanche l'ombra, nemmeno quando il gigante gli tranciò le gambe con un morso Mikasa poté udire il suono delle ossa che si spezzavano.

Quando si svegliò aveva la schiena appoggiata al muro, un gran mal di testa ed era tutto buio.

La cella, ora ricordava. Il volto di Eren le affiorò dolorosamente alla memoria e le fece mancare il respiro, le sue parole, a cui si rifiutava di credere, le rimbomavano nella cassa cranica come se fosse vuota.

Niente organi, niente cervello, niente emozioni, solo quelle parole.

Ti ho sempre odiata.

Ti ho sempre odiata.

Ti ho sempre odiata.

«Jean, hai intenzione di scavare un tunnel consumando il pavimento della cella?» domandò Connie, seduto sulla panca di fianco a lei, con una punta di ironia nella voce.

Jean lo guardò in cagnesco e non accennò ad arrestare la sua nevrotica marcia lungo il perimetro della stanza con le sbarre.

Camminava avanti e indietro da un sacco di tempo, forse un'ora, e non riusciva a sedersi e starsene buono.

Sentiva di poter impazzire.

Quella mattina si era svegliato ed aveva trovato il letto vuoto, e già aveva rischiato di dare di matto. Se non fosse stato per lui, Jeri avrebbe dormito fino a mezzogiorno tutti i santi giorni.

E invece quella mattina si era svegliato e lei non c'era, aveva controllato in bagno, nella camera della ragazza, era persino sceso al refettorio, ma niente, di Jeri non c'era traccia.

Poi, una volta tornato nella sua stanza, aveva notato un foglietto ripiegato abbandonato sulla sua scrivania, l'aveva dispiegato e ne aveva letto il contenuto.

Era un messaggio di Jeri, senza ombra di dubbio, conosceva una sola persona al mondo che a vent'anni aveva la grafia di una bambina di cinque, le lettere erano storte e scritte a caratteri cubitali.

𝐒𝐀𝐋𝐕𝐀𝐓𝐈𝐎𝐍, jean kirschtein Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora