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All'improvviso è tornata quella sensazione non del tutto sconosciuta. L'ho sentito caricarsi di arroganza e violenza, e potevo sentirlo nelle sue braccia, mentre le sue mani si sono strette intorno alla mia gola nel tentativo di soffocarmi come quando si cerca di ammazzare un pollo. Potevo guardarmi nei suoi occhi azzurri, come in uno specchio. Stavo scivolando via, tra le sue braccia. Mi sono detta che era arrivato il mio momento. Dopo ventotto anni, di cui otto assolutamente da dimenticare, avrei lasciato questo mondo per sempre, con una sofferenza nel cuore. Respirando a fatica. Ero pronta, lo ero davvero ma quando lui ha allentato la presa ed ho iniziato a boccheggiare, mi sono resa conto di non aver vissuto abbastanza. Non ero pronta a morire. Mi ha semplicemente domandato che fine avesse fatto Sylvie. Ah, la puttana che ha provato a portarmelo via. "È stato un incidente, è inciampata". Il suo sguardo vitreo è colmo di disgusto e rabbia repressa.

"Sei malata". "Lo siamo entrambi, a quanto pare. Dimmi, da quanto desideravi strangolarmi in quel modo?". È semplicemente andato via, incapace di affrontare il discorso. Giusto, lo avevo detto che non ha le palle. Al mattino, non sono sorpresa e nemmeno dispiaciuta quando non lo trovo sul divano. È sgattaiolato via. Gli sono stata vicino, ho conosciuto suo padre, l'ho confortato. In cosa sto sbagliando? Perché non riesce a darmi l'amore di cui ho bisogno? Di cui entrambi abbiamo bisogno. Mi vesto in fretta e raggiungo l'auto, decidendo quasi su due piedi di tornare a Madison dall'uomo che una volta chiamavo papà.

*** 

Appena ho aperto gli occhi, ho capito cosa dovevo fare

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Appena ho aperto gli occhi, ho capito cosa dovevo fare. Non volevo tornare in camera e vederla, perciò ho indossato i vestiti puliti appesi nella lavanderia ed ho preso il taxi per andare in aeroporto. Destinazione Buffalo, e da lì una navetta diretta ad Attica. Sono davanti all'ingresso del carcere correttivo dove è rinchiuso mio fratello da quattro anni. È iniziato l'orario per le visite, perciò dico il suo nome e mi faccio accompagnare dalla guardia. Siedo dietro al vetro, in attesa di vederlo sbucare dalla porta. Quando scorgo il suo sguardo vacuo e smeraldino, abbozzo un sorriso. Lui mi osserva attentamente, sgranando gli occhi. La guardia lo fa sedere, togliendogli le manette. Paul prende la cornetta, sospirando: "Fratellino, sei proprio tu?".

"In carne ed ossa". Mi basta una veloce occhiata per capire che sta meglio e sotto l'effetto di psicofarmaci. È quasi innocuo. "A cosa devo la visita?". "Non posso venire a trovare mio fratello?". Paul scuote la testa. "Non tu, non dopo quattro anni e non dopo tutto quello che è successo". Mi guardo intorno, sentendo alitarmi sul collo. Poi mi sporgo sul vetro, parlando a bassa voce. "Volevo sapere una cosa da te... su quello che hai fatto". Aspetta che finisca di parlare. Nel frattempo ricordo quell'esatto momento di quattro anni fa, quando ho ricevuto la chiamata.

"Come sapevi di doverlo fare?" inizio a dire, sentendomi pizzicare la gola. "Non eri mai stato un tipo violento. Come hai saputo di dover agire?". Mostra un ghigno soddisfatto. "Ho sentito delle voci" spiega, guardandosi intorno. "Mi hanno detto esattamente cosa dovevo fare. Ma ora non le sento più, non così spesso". "Delle voci?" mostra uno sguardo spiritato. "Sì, erano voci convincenti, amiche. Non ho potuto rifiutarmi". Io non ho sentito voci. Ho solo sentito di doverlo fare. Ho provato ad ammazzare qualcuno nel mio letto.

"Perché me lo chiedi?" scuoto la testa, sorridendogli. "Volevo saperlo, semplice curiosità. Non abbiamo avuto modo di parlare da quando sei qui". "Non abbiamo mai parlato" replica, serrando le labbra. "Devi tirarmi fuori di qui, fratello".

"Non posso farlo". "Ma hai quell'amico che fa l'avvocato, no?" annuisco, schiacciando la cornetta contro l'orecchio. "Non è il posto per me. Preferirei essere trasferito in un ospedale psichiatrico piuttosto che marcire per sempre in questa bettola". "Senti, Paul... non so come funziona qui, ma non credo che possano concederti di uscire con diagnosi di infermità mentale".

"Tu dici?" sogghigna ancora, sbatte il telefono sul tavolo e si alza all'improvviso, urlando e sgomitando freneticamente. Preoccupato, mi alzo in piedi spingendo i pugni contro il vetro. "Cos'ha mio fratello? Aiutatelo!" la guardia scatta in avanti, tentando inutilmente di calmarlo. Paul lo urta, facendolo cadere all'indietro al che gli si avvicinano tre guardie. Uno di loro ha una siringa tra le dita e gli inietta qualcosa direttamente nella carotide. Mi pizzicano gli occhi quando li vedo portarlo via con la forza, esanime. "Signore, deve andare via" una guardia mi richiama, indicando la porta. "Ho bisogno di parlare con qualcuno di mio fratello. Sarebbe possibile incontrare il direttore del carcere?". Mi fanno aspettare in una sala d'attesa all'ingresso. Ci vuole una buona mezzora prima che possa essere richiamato. "Lei è il fratello di Paul?" annuisco, porgendogli la mano.

"Mi hanno detto che voleva parlarmi". "Sì, mio fratello non merita di stare qui. Quello che ha fatto, è stata una risposta condizionata dalla sua psiche". "È uno psicologo forense, signore?" scuoto la testa. "Allora, cosa può saperne? Non sa di cosa ha bisogno suo fratello. Non è instabile mentalmente. È solo un omicida che ha ucciso una ragazza senza un motivo".

"Mi ha appena detto che ha sentito delle voci. Quale persona sana di mente sente delle voci? Lei mi potrebbe spiegare questo?". Il direttore scuote la testa, alzandosi in piedi. "So come funziona in questi casi. Abbiamo avuto Chapman fino a qualche anno fa. L'assassino di John Lennon, ricorda? Lui ha semplicemente premuto il grilletto cinque volte...". "Sì, e dopo si è messo a leggere Il giovane Holden come se nulla fosse successo. Conosco la storia" commento, ricordando lo stesso romanzo nelle mani di lei quando l'ho vista seduta nel giardino dell'università in cui studia. È davvero il romanzo preferito dai sociopatici.

"Lui ha ottenuto una condanna a venti anni, ma data la gravità delle sue azioni, non gli hanno concesso la libertà condizionata perciò adesso l'hanno semplicemente trasferito. Adesso, signor..." gli ripeto il mio nome.

"Giusto. Adesso mi preme dirgli di andare via e di non voltarsi indietro. Suo fratello Paul resterà qui". Allontano la sedia, ma prima di raggiungere la porta sbatto i pugni sulla scrivania di legno. "Lei non sa con chi ha a che fare. Mio fratello andrà via da questo posto". Il direttore fa un cenno alla guardia che prontamente mi scorta all'uscita. Tra una cosa e l'altra, mi sono dimenticato di parlare a Paul delle condizioni di nostro padre. Devo aspettare quasi un'ora per la navetta. Mi riporta a Buffalo e da lì torno a New York. Approfitto della giornata di festa per poter andare in concessionaria. Tra le tante auto usate, c'è una Ford Mustang che attira la mia attenzione ed è simile a quella di Adam. "Quanto costa quella?".

"Beh, è un'auto d'epoca, datata 1967. Va dai trentamila in su". Vorrei davvero essere come Tom così da non dover domandare il prezzo. "Qualcosa di più economico?" credo di essergli sembrato abbastanza indigente dato che si è spostato subito nella sala in cui custodiscono le Chevrolet degli anni 2000. "Quella che costa di meno, può pagarla sui diecimila. Trentamila chilometri, cerchi in lega, a benzina...". La acquisto subito, prima di poter cambiare idea. Firmo il contratto per l'assicurazione e infine mi consegnano le chiavi. "Si troverà molto bene" abbozzo un sorriso, salendo a bordo. Siedo finalmente al posto di guida, in un'auto che è esclusivamente mia. Torno a casa e solo in quel momento riaccendo il cellulare. Dieci messaggi. Alzo gli occhi al cielo, snervato. Non credevo che mi avrebbe voluto rivedere e risentire dopo stanotte. Compongo il suo numero, sentendo la sua voce dopo un solo squillo. "Ho provato a chiamarti. Dov'eri?".

"Da Adam. Sono andato a trovare il piccolo". "Non mentirmi" mi guardo intorno, consapevole che lei potrebbe essere dietro l'angolo. "Non sto mentendo". Pronuncia il mio nome come se fosse la parola più brutta al mondo. "Sono andato a comprarmi una macchina". "Dici davvero?". "Sì, una vecchia Chevrolet del 2005. Era l'unica che potevo permettermi". "Mi porti a fare un giro?". Inserisco la chiave nella serratura, entrando in casa. Acquisisco un'espressione accigliata, incapace di comprendere il suo comportamento volubile. Ad un tratto ricordo le sue parole. Mi ha spiegato che anche lei ha assunto psicofarmaci per molti anni. E se fosse davvero vittima da personalità multipla? Quello che causa il disturbo dissociativo dell'identità, di solito deriva da un grave trauma infantile e lei lo ha avuto. "Stasera. Ti passo a prendere dal negozio" riappendo, sedendomi al computer per fare le mie ricerche. Se lei davvero soffre di questo disturbo, potrebbe essere aiutata. Il suo lato psicopatico e quello dolce sono così differenti, collaterali. Voglio aiutarla, e aiuterò anche Paul. 

𝐕𝐎𝐘𝐄𝐔𝐑 | 𝙂𝙪𝙞𝙡𝙩𝙮 𝙋𝙡𝙚𝙖𝙨𝙪𝙧𝙚 (𝟏) 𝘾. 𝙀.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora