CAPITOLO 15

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POV Melissa
La mattina presto busso alla porta di casa di Miray. Ad aprirmi è Arisa, che con un dolce sorriso mi invita ad entrare. – La signora Miray non è ancora scesa a fare colazione, se vuoi puoi aspettate in salotto, oppure venire a fare colazione con me e Jeffrey – Accetto la proposta di Arisa, seguendo la verso la cucina – Sfortunatamente la signorina Amirah non è rimasta a fare colazione, appena è scesa è uscita di corsa di casa, salutandoci frettolosamente. Sembrava scossa – Confusa aggrotto le sopracciglia, domandandomi perché la signorina fosse rimasta qui a dormire. Per cessare ogni mio dubbio, decido di chiedere ad Arisa e a Jeffrey, che trovo seduto a tavola, appena entriamo in cucina. <Come mai era qui?> mentre Arisa mi prepara un piatto per la colazione, Jeffrey si pulisce la bocca con disinvoltura per poi rispondere <Ieri sera sono tornate tardi dalla loro cena e perciò la signora le ha proposto di rimanere a dormire per non tornare a casa al buio e da sola> annuisco non appena finisce di mangiare, spostando la sedia e sedendomi di fronte a lui con un sospiro. <Sono quasi le nove, dovrebbe essere già sveglia a quest’ora> sussurro tra me e me. Mangio il cibo sul piatto lasciato davanti a me da Arisa. Le ore passano nel frattempo, e ancora nessuna traccia di Miray. Nonostante la preoccupazione, cerco di non pensare molto alla sua assenza inaspettata, concentrandomi sulle due persone davanti a me, che stanno raccontando un aneddoto di quando si sono conosciuti la prima volta. – La prima volta che l’ho visto, ho subito pensato che fosse l’uomo perfetto per me- sorrido intenerita dalle parole della donna, guardando entrambi con un pizzico di invidia. A differenza loro, non ho mai avuto la fortuna di trovare qualcuno che mi amasse per come sono, mi sono sempre focalizzata sui componenti della famiglia Strandford e sui loro bisogni, non pensando mai a quello che volessi. Ogni mio desiderio è stato messo da parte per soddisfare le esigenze altrui. - Va tutto bene Melissa?- accorgendomi di non aver prestato attenzioni a quello che stavano dicendo e di aver fatto preoccupare Jeffrey e Arisa, annuisco rivolgendo loro un sorriso forzato, continuando con il discorso.
Mentre converso con i due, una bambina entra dalla porta, vestita con una maglietta molto più grande di lei, che la copre fino alle ginocchia, con il volto gonfio a casa del sonno. Non si accorge subito della nostra presenza, continuando a strofinarsi gli occhi, probabilmente ancora assonnata. Il primo a parlare è Jeffrey, che la saluta calorosamente <Buongiorno piccola, vuoi qualcosa da mangiare?> la bambina, non aspettando di sentire qualcuno, si spaventa, indietreggiando e andando a sbattere contro la parete alle sue spalle. Anche se ancora leggermente spaesata, appena si rende conto di avere davanti Jeffrey, si rilassa, lasciandosi andare in un sorriso sornione -SÌ, per favore – Mentre la piccola si sedie, la osservo senza dire niente, cercando di capire cosa ci faccia in casa Tanner. Boccone dopo boccone, finisce di mangiare In pochi minuti. Era appoggiata con i gomiti sul tavolo e le spalle ricurve, intenta a guardare che niente le venisse tolto dal piatto. Il capo è sempre rivolto verso il basso, tanto che nonostante sia passato un po’ di tempo da quando è scesa giù dalle scale, non si è ancora accorta della mia presenza a tavola. Tossisco, cercando di attirare la sua attenzione, senza spaventata come era successo poco fa, ma anche questa volta, non si accorge di una persona in più nella stanza. – Rebeka, c’è una persona qui con noi – ad avvertirla fu Jeffrey, che nonostante l’atteggiamento quasi scortese della bambina, continua ad essere delicato con lei. La bambina, di cui ho appena scoperto il nome, alza il capo guardandosi attorno con occhi terrorizzati, come se fosse un cerbiatto che sta per essere azzannato da un momento all’altro. Appena posa i suoi occhi su di me, smette di masticare, bloccandosi completamente. Stando lontana da lei ed evitando movimenti azzardati, la saluto <Ciao, sono Melissa, è un piacere conoscerti> le mie parole sembrano passare da un orecchio all’altro. Non sapendo come reagirebbe dovessi avvicinarmi, volgo lo sguardo verso Arisa, che appoggia una mano sulla spalla di Rebeka. La bambina dagli occhi azzurri si alza frettolosamente dalla sedia in cui è seduta, andandosi a nascondere dietro alle gambe della donna che l’ha appena toccata. <Piano piccola, deglutisci il boccone che hai in bocca. Non sono qui perché voglio farti del male ok? Conosco la signora Tanner, io e lei siamo amiche> sentir nominare Miray, sembra tranquillizzarla, ma restia alle mie parole, cerca conferma da parte delle altre due persone che si trovano con noi. Un semplice gesto del capo, è tutto ciò che serve per far sentire al sicuro Rebeka, che torna a sedersi. Più presto attenzioni ai suoi movimenti e alle sue espressioni, più sembra assomigliare a Miray, la prima volta che la vidi. Piccola e docile, buttata da qualche parte e lasciata sola, completamente spaesata, senza alcun punto di riferimento. Non volendo fare domande scomode davanti a lei, rimango zitta, decidendo di chiedere a Miray una volta sole. <Allora Rebeka, ti piacerebbe fare qualcosa intanto che la signora Tanner non è ancora qui?> i suoi occhi si ingrandiscono dalla gioia  di poter finalmente fare qualcosa -P-possiamo uscire fuori? Mi piacciono le statue che ci sono… - Allungo una mano verso di lei, facendole cenno di prenderla e di seguirmi. Si pulisce la bocca in fretta, saltando giù dalla sedia e salutando con la mano Jeffrey e Arisa che stanno sistemando e mettendo a posto. Usciamo dalla porta di casa, lasciandoci immergere dalle foglie degli alberi mischiati ai raggi del sole che illuminano i fili d’erba sotto ai nostri piedi. Rebeka viene subito attirata da una delle statue che si trovano vicino alla casa. Con il dito punta alla spalla della donna di marmo, dove si trova un uccellino <Sembra che l’uccellino stia guardando negli occhi quella statua, forse vuole scoprire se sta nascondendo qualcosa?> esclama la piccola, con gli occhi che le brillano, per poi cambiare discorso senza darmi la possibilità di controbattere, per colpirmi con un’altra esclamazione <Perché è nuda?> alla sua domanda piena di innocenza, rido, coprendomi la bocca non appena mi guarda storto – Scusami e per rispondere alla tua domanda, la nudità nella Grecia antica rappresentava la perfezione, sia interiore che esteriore> la risposta che le do, sembra soddisfarla abbastanza, da farla spostare verso un’altra statua poco più lontano. <Anche questa donna è nuda, però sta piangendo, perché?> inclina il capo mentre studia con grande attenzione e curiosità la posa e il volto della seconda donna – A questa domanda non so darti una risposta, forse sta soffrendo? Forse qualcuno che ama l’ha abbandonata? Oppure qualcuno è morto, e non riesce ad accettarlo, perciò si sfoga con il pianto -  Rebeka annuisce, ma a differenza di prima, non si allontana alla ricerca di altre sculture <Mi piace l’arte, la posso spiegare come voglio> senza smettere di parlare, incomincia a dondolare avanti e indietro sui talloni <Per me sta piangendo perché nessuno la vuole come amica. Succede anche a me a scuola> si avvicina al pezzo di marmo, accarezzandolo <Non deve piangere, i miei genitori quando trono da scuola con gli occhi rossi, mi dicono che c’è di peggio e che devo essere sempre forte perché tanto nessuno mi vorrà mai bene> il respiro mi si mozza in gola, ma anche questa volta, come prima, sgancia la bomba e poi scappa verso un’altra parte del giardino. <Questa mi piace di più delle altre> Un improvvisa folata di vento fa alzare tutte le foglie secche che ci sono sotto di noi. Si muovono da una direzione all’altra, senza un vero obiettivo, fino a quando non si posano sulla statua <Le voglio dare un nome, Rebeka Miray Tanner. È come me e la signora, triste> poso gli occhi sulla struttura in marmo, maggiormente nascosta rispetto alle altre. Il capo della donna è rivolto verso l’alto in cerca di aiuto oppure perdono, con la bocca schiusa e la fronte aggrottata, testimonianza del dolore che prova. Il petto sporge in avanti come se stesse cercando di allontanarsi da qualcosa, ma invano, tra le sue scapole infatti, si trova un coltello che le lacera la pelle. Il vestito che la ricopre parzialmente, cade sulle sue gambe con dolci pieghe, fino a ricoprire i piedi scalzi e raggrinziti. <C’è un incisione sul coltello, puoi leggere cosa c’è scritto? > sto per fare come chiesto dalla piccola, ma vengo interrotta “Melissa” la voce di Miray che pronuncia il mio nome mi fa voltare verso la direzione opposta alla statua – Signora Miray, come sta stamattina? – chiedo con gentilezza, accorgendomi dei suoi occhi rossi. <Tutto bene Melissa, c’è sempre di peggio… entrambe lo sappiamo” sorrido malinconica, ripensando a quello che abbiamo passato qualche anno fa, ma vengo interrotta subito “Dovevo portarla io a fare il giro del giardino, ma non mi sono svegliata in tempo. Grazie per averla portata qui e non averla lasciata a casa ad annoiarsi” Rebeka, distratta dall’arrivo della signora Tanner, si dimentica della domanda appena fatta, tirando la donna accanto a me per la manica della giacca, trascinandola via. Le seguo restando dietro di qualche passo, osservando come Miray sorride alla piccola, che iperattiva indica tutto ciò che vede. Rimango sempre più indietro, volendo lasciare alle due il tempo di conoscersi, quando sento il telefono squillare nella tasca dei miei pantaloni. Mi allontanato ancora di più da Rebeka e Miray, rispondendo al telefono. A chiamarmi è uno degli impiegati  – Melissa, qualcuno qui ha lasciato una busta per la signora Tanner, lo lascio nel suo ufficio?- presa alla sprovvista dalla notizia, mi fermo, guardando le due allontanarsi sempre di più <Che tipo di busta?> - Non saprei, è completamente bianca, l’unica cosa scritta su di essa è il nome della signora Tanner – ricordando la lettera lasciata nel suo ufficio quando Miray uscì dall’ospedale, il cuore inizia a battermi più velocemente. Con la voce tremolante rispondo per poi chiudere la telefonata.  Frettolosamente, aumento il passo, raggiungendo Miray e Rebeka che sono ferme a guardare dei pesciolini che si muovono nelle acque di uno stagno, in cerca di una via d’uscita. Appoggio una mano sulla spalla di Miray, attirando la sua attenzione, sussurrandole con vice scommessa che c’è stato un problema a lavoro. “È io che speravo di potermi rilassare” borbotta Miray infastidita <Non c’è bisogno che lei venga signora, provo a risolvere io. Se non dovessi farcela, la chiamerò> Miray, troppo stanca per controbattere, annuisce ringraziandomi. Saluto Rebeka che mi saluta a sua volta con sorriso radiante. Ripercorrono lo stesso tragitto, tornando nella villa, prendendo la borsa lasciata sul tavolo in cucina, ed uscendo solo dopo aver salutato Jeffrey e Arisa. Arrivo in azienda nell’arco di un quarto d’ora. Salgo in ascensore ansiosa di sapere cosa ci sia scritto in quella lettera. Non appena arrivo al piano dove si trova l’ufficio di Miray, esco. Il corridoio che conduce alla porta dell’ufficio è vuoto, il silenzio regna sovrano. Un’aria gelida, proveniente da una finestra aperta, penetra sotto il cappotto, insinuandosi nella mia pelle e facendomi rabbrividire. Il rumore dei mie tacchi che sbattono sul pavimento, è l’unica cosa che mi accompagna a chiudere la finestra, ma un rumore improvviso, scaturito da qualcuno che si trova dietro alle mie spalle, mi fa voltare, agitata e spaventata. Un’ombra si nasconde dietro al muro. Con il cuore in gola, parlo <C’è qualcuno?> Il signor Spouse si fa vedere, elegante come al solito, rivolgendomi un sorriso – Scusi, non volevo spaventarla, ma è tutta la mattina che cerco la signora Tanner – rilassandomi momentaneamente, rispondo <La signora non è qui, può passare domani se è una cosa urgente> Carter Spouse si incammina verso l’ascensore, continuando a guardarmi – No, non c’è bisogno, penso di riuscire a risolvere da solo, grazie comunque – continuo a tenerlo d’occhio fino a quando le porte dell’ascensore non si chiudono. Finalmente libera entro in ufficio. La lettera è lì, appoggiata e bianca come la neve, in contrasto con il colore scuro della scrivania in cui si trova. La prendo in mano apprensiva, trovandovi sotto un coltello. Deglutisco terrorizzata, aprendo la busta con mani tremolanti. Dentro vi trovo una fotografia in bianco e nero, smussata ai lati e leggermente strappata.  L’immagine che si presenta davanti ai miei occhi è quella della statua vista poco fa con Rebeka; la donna con un pugnale conficcato sulla schiena. Giro la foto, non trovando niente di scritto sul retro, solo delle macchie di sangue già secche. Deglutisco a fatica, prendendo il telefono e chiamando Miray. Dopo qualche squillo, risponde con leggerezza
– Signora, deve venire subito qui – non so cosa sia a farla preoccupare, se il modo in cui pronuncio quella frase, senza sentimenti, oppure la voce rotta dal pianto “Melissa, cosa succede?” cercando di riprendermi mi asciugo le lacrime con la mano, prendendo un respiro – Non glielo posso dire per telefono, deve venire qui –  spengo il telefono, lasciandomi andate sulla sedia alle mie spalle, iniziando a tremare. Le spalle si alzano e si abbassano ad ogni singhiozzo che rimane intrappolato in gola, come se anche esso fosse impaurito dall’idea di uscire allo scoperto. La mano appoggiata sulla bocca, nonostante stia premendo con forza, non riesce ad isolare i suoni dettati dalla paura, che fuoriescono dalle mie labbra. Rimango lì, sola e vulnerabile, fino all’arrivo di Miray.

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