CAPITOLO 23

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Ad un certo punto della serata vennero portati fuori gli alcolici e venne accesa la musica, che ora dopo quattro bicchieri di vino, echeggia incessantemente nella mia testa, facendomi stringere gli occhi dalla nausea. Gli invitati sembrano essere aumentati, o forse è una mia impressione.
Le prime ore dopo essere scese, le passai accanto ad Amirah, che nonostante la scenata della nonna, aveva ripreso il suo solito sorriso. Venimmo divise quando alcune zie la riconobbero da lontano, avvicinandosi e portandola via con la scusa di non vederla da quando si è trasferita a New York. L’ora restante che mancava fino a mezzanotte la passai girovagando per il salotto, chiacchierando qua e là con sconosciuti. Venni poi chiamata urgentemente da Gerald che cercava il mio aiuto per abbellire le torte, ritenendole blande e prive di bellezza. Ci mettemmo qualche minuto di troppo, io che continuavo a sbagliare, cagione la mia poca sobrietà, e Gerlad che continuava a distrarsi controllando l’ora per assicurarsi, a detta sua, di non far aspettare gli ospiti, cosa che successe comunque.
Fu così che passai la maggior parte del mio tempo accanto al padre di Amirah, bevendo altri bicchieri di vino. Mary si unì a noi verso la fine, complimentandosi per i dolci che avevamo preparato, allontanandosi poi con suo marito, pronti a festeggiare l’anno nuovo.
“Manca poco a capodanno!” urla Manuel saltando euforico, con le mani davanti al petto, come se stesse pregando. È giovane si, ma il suo volto dimostra la maturità che ha dentro di sé, quella maturità dovuta alla sofferenza, personale e famigliare. Ma il suo modo di comportarsi in mezzo a gente che lo conosce davvero, mischiato all’influenza che l’alcool ha sul corpo umano, dimostra che nonostante tutto, un pizzico di innocenza è ancora presente nel suo animo.
“È sempre così?” biascico tra me e me, sorreggendomi su una sedia.
“Miray, devi subito trovare Amirah per festeggiare con lei, muoviti” continua ad urlare il ragazzo, spingendomi in avanti, facendomi quasi cadere per terra, correndo verso sua sorella e i suoi genitori.
Mentre cerco Amirah tra la calca senza successo, vengo sopraffatta da un caldo improvviso. La vicinanza degli altri corpi, l’odore pesante di alcool e sigarette, mi soffocano. Ormai non in grado di resistere a lungo lì dentro, lascio perdere la speranza di trovarla prima dell’anno nuovo, uscendo dalla casa a prendere una boccata d’aria; che sarà mai un altro anno passato da sola?
Fuori, non più al riparo dalle mura dell’abitazione, il vento mi fa rabbrividire, il maglione non abbastanza per tenermi al riparo dal freddo.
Il vento muove le folte chiome sostenute da fragili rami, che lasciandosi trascinare, ballano con esso, seguendo passo passo i suoi movimenti veloci e graziati all’occhio, ma stridenti e fastidiosi all’udito. Il rumore del mare aumenta come se volesse unirsi alla musica, le onde lontane non sono più calme e dolci, ma irrequiete e spaventate, pare abbiano capito l’esito della serata.
Una strana sensazione di irrequietezza incomincia a nascere dentro di me, un avvertimento lieve che man mano aumenta più passano i secondi.
Nel buio del giardino, sempre più ansiosa, riesco a intravedere una sagoma piegata in due, come dolorante. Le pochi luci appese sugli alberi, illuminano il cammino fino alla persona, salvandomi dall’inciampare davanti a tutti gli invitati.
“Sta bene?” chiedo cercando di rimanere in piedi, troppo buio per una persona brilla. La figura si raddrizza, allargando le spalle.
“Non dovevamo essere sincere d’ora in poi?” domanda una voce femminile. Stringo gli occhi, trovando Amirah.
“Si…” sussurro ignara di quello che ha scoperto. Senza voltarsi mi passa un telefono, che riconosco essere il mio. Che ci faceva con quello in mano?
La risposta alla mia domanda mi viene data sotto forma di una frase scritta di fretta.
“Mi è stato mandato questo contratto dal tuo avvocato…cosa vuol dire?” il messaggio che è stato mandato da Hana, sfortunatamente non è stato letto solo da me, ma anche da chi avrebbe dovuto scoprire il tutto una volta tornate a New York.
“Posso spiegare…”
“Non c’è niente da spiegare Miray! Mi hai mentito un’altra volta!” le sue urla fortunatamente, vengono sopraffatte dal rumore dei fuochi d’artificio appena accesi.
Il giardino si illumina di colori, mettendo in mostra non solo gli alberi che poco fa erano in sospeso sopra di noi come ombre, ma anche il suo volto contorto dal dolore.
“Amirah, mi devi ascoltare” dico barcollando verso di lei.
Uno schiaffo è tutto quello che mi basta per ritornare in me. Lo sguardo ormai rivolto verso il basso, la guancia che pulsa, i fuochi d’artificio che continuano ad illuminare e ravvivare la notte, accompagnati dalle urla di gioia di tutti gli altri in casa…e poi il dolore palpabile al volto, ma anche quello nascosto di ferite riaperte ma invisibili agli occhi di chi non vuole vedere.
Digrigno i denti cercando di tenere a bada la rabbia che cerca di prendere il sopravvento.
“È un contratto che mi aspetto lei firmerà una volta tornate a New York signorina Aceveds… se non dovesse farlo, può considerare tutto quello che abbiamo passato fino ad ora, finito” sibilo toccandomi la guancia. “E non si permetta mai più di toccarmi” Amirah rendendosi conto troppo tardi di ciò che ha fatto, tenta di avvicinarsi per scusarsi, però mi scosto bruscamente prima che possa toccarmi nuovamente.
“Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo? Devo firmare un contratto per poter stare con te…”
Con i pugni stretti ai fianchi, la mandibola tesa, e la fronte corrugata, neanche lei ha più intenzione di tirarsi indietro da questa discussione; tutte e due intente a ferirci l’un l’altra se necessario. “Non posso parlare a nessuno di noi due, non possiamo farci vedere insieme in pubblico se non per questioni di lavoro, non posso parlare di te da nessuna parte e se qualcuno chiede se tra di noi c’è qualcosa devo negare” legge dopo avermi sfilato dalle mani il telefono, sfidandomi con lo sguardo a negare. “E smettila di chiamarmi “signorina Aceveds”, non siamo ancora tornate a New York davanti agli occhi di tutti”
“Rischiamo di mandare tutto in frantumi Amirah. Se la nostra relazione viene a galla, siamo finite. Non sarò tanto io a pagarne le conseguenze, quanto tu. Sai già che inizieranno a girare voci sulle ragioni della nostra collaborazione, e ne va della tua reputazione e dei tuoi dipendenti…rischi di fallire” confesso scandendo bene ogni parola, volendo essere più chiara possibile.
“Non ti credo…questo non è l’unico motivo per cui vuoi farmi firmare quel contratto. Inoltre entrambe sappiamo che se questo fosse stato il vero motivo, non me l’avresti tenuto nascosto e soprattutto, non ci sarebbe mai stato un contratto di mezzo…ti saresti fidata della mia parola”
“C’è anche un altro motivo, e riguarda i Forbes” ammetto mordendomi il labbro. “Mi fido di te, ma non loro”
“Cosa c’entrano loro in tutto questo Miray?”insiste volendo sapere la verità. Un sapore metallico invade le mie papille gustative, un sapore che accolgo senza troppe polemiche; questione di abitudine.
“Quando torniamo a Manhattan Amirah, non qui. Voglio evitare di rovinarti le vacanze più di quanto non abbia già fatto”
Tutti gli ospiti in quel momento si riversano fuori con urgenza, un connubio di persone euforiche e urla da ubriachi che destano Amirah dai suoi dubbi e domande. La luna piena sorta qualche ora addietro, dipinge d’argento il cielo nero, privo di stelle. Gerald e Mary ci si avvicinano, probabilmente gli unici sobri in tutta la casa.
“Dovreste andare a riposare. Domani sera dovete partire per tornare a Manhattan” esclama con un sorriso forzato la donna.
Amirah si avvicina unendo le nostre mani, cercando di sorridere felice. Mi irrigidisco subito, consapevole che le sue azioni sono dovute alla presenza dei suoi genitori e non perché tra noi si sia risolto tutto. “Si mamma, forse è meglio se andiamo” sussurra lanciandomi un occhiata di traverso. Per sostenere le sue parole, annuisco con convinzione, volendo solo andarmene il più lontano possibile da questa situazione e da questo falso affetto.
I due ci lasciano andare poco dopo, ma il tragitto verso la stanza della donna accanto, è più lungo del previsto. Veniamo fermate prima da Amanda e Manuel che, guardandosi attorno come per assicurarsi nessuno gli stia ascoltando, confessano di aver bevuto di nascosto.
“Tra qualche settimana compio ventuno anni” brontola Manuel, incrociando le braccia al petto, mentre ci allontaniamo sempre mano nella mano. Il palmo prude, ma non riesco a comprendere se sia per il ribrezzo dovuto a tanta finzione o il sentimento che il suo tocco provoca.
A pochi metri dalle scale veniamo fermate da diversi parenti, che biascicano parole senza senso, cugini che, euforici di vedere Amirah dopo tanto tempo, criticando e commentano qualche articolo che hanno letto su di lei, zie che le chiedono quando ha intenzione di crearsi una famiglia e zii, che si complimentato per la sua azienda.
Salite in camera, la prima cosa che fa dopo aver lasciato andare la mia mano come se si fosse scottata, è tirare fuori la valigia e iniziare a riempirla.
“Che stai facendo?” chiedo guardandola prendere diversi capi dall’armadio, piegarli e metterli dentro. “Fermati” dico strappandole i vestiti dalle mani, buttandoli sul letto alle mie spalle.
“Voglio andarmene subito Miray. Non ho intenzione di aspettare fino a domani sera” risponde circumnavigandomi e riprendendo gli abiti lanciati poco fa. “Prima torniamo, prima mi dirai tutta la verità”
“Sicuramente non ci sono biglietti disponibili per due a quest’ora” dico cercando di persuaderla a stare qui un giorno in più.
“Ecco perché farai venire qui il tuo jet privato” informa chiudendo la valigia, dirigendosi vero la scrivania, aprendo il cassetto e tirando fuori il portafoglio, mettendolo nella tasca della giacca appena indossata. Dopo essersi assicurata di avere tutto, agguanta la maniglia della valigia, tirandosela dietro.
“Aspetta, fammi chiamare il pilota prima” mi allontano momentaneamente da Amirah, chiamando. La telefonata dura poco, il necessario per comunicarmi quanto ci metterà ad arrivare e in che zona della pista dell’aeroporto trovarlo.
“Sarà qui tra cinque ore, il tempo di controllare che sia tutto in regola più il viaggio” cauta afferro la maniglia che tiene ancora stretta, allontanandole la valigia. “Prova a dormire almeno un paio d’ore. Quando dobbiamo partire per raggiungere l’aeroporto ti sveglio io” sussurro spingendola verso il letto. Stranamente non protesta, probabilmente sentendo solo adesso la stanchezza pesarle sulle spalle. Le palpebre iniziano a chiudersi, gli occhi diventano lucidi più cerca di tenerli aperti e i suoi movimenti rallentano visibilmente. Si toglie solo la giacca, sdraiandosi sul letto con un sospiro.
Dopo cinque minuti è già addormentata sulle coperte, rannicchiata su un lato, con le braccia attorno alle spalle per proteggersi dal freddo. Le appoggio una coperta sulle spalle, sedendomi sulla sedia accanto alla scrivania.
L’ora passa così, lei che dorme e si rigira nel letto biascicando frasi senza senso, io che quasi mi addormento con la testa appoggiata sulla scrivania, tenendo d’occhio l’ora, per niente intenta a subirmi la sua ira e le sue accuse dovessimo tardare.
Anche se è ora di andare, la lascio riposare ancora per qualche minuto, prendendo la valigia e la sua giacca, portandola giù, facendo fatica a non fare rumore. Appena giungo ai piedi della scalinata, mi si para davanti Mary con in mano una tazza di camomilla.
“Mal di testa. Forse ho bevuto un po’ troppo” sussurra rispondendo alla mia domanda implicita, facendo segno di seguirla. “Dove state andando?” chiede puntando gli occhi sugli oggetti lasciati davanti alla porta di casa.
“Dobbiamo tornare a New York prima del previsto. Ci sono state delle complicazioni con il progetto” se la mia scusa non la convince, non ne fa parola, invece annuisce offrendomi della camomilla.
“Attenta a quello che fai Miray…mia figlia può essere paziente, ma non io”
“Non capisco…” alla sua improvvisa esclamazione, l’aria si fa pesante.
“Sei stata accolta in questa casa da tutti noi, ma un passo falso, ferisci Amirah una volta, e per me non esisti più” sussurra bevendo un sorso con gli occhi puntati su di me. “Non dovevate andare?” chiede subito dopo con un sorriso, controllando l’orologio come se la piccola discussione non fosse per niente avvenuta.
“Si” lascio la tazza sul tavolo dubbiosa del suo comportamento, risalendo le scale. Con le parole di Mary che mi frullano nella testa, mi avvicino ad Amirah accarezzandole la mano appoggiata sul letto per svegliarla.
“Non mi toccare” borbotta ancora assonnata, alzandosi dal letto con poca grazia, guardandosi attorno.
“Ho già portato tutto giù” dico spostandomi di lato per farla passare. La seguo fino in salotto, trovando Mary seduta sul divano ad aspettarci. Guardo verso la cucina non trovando più le tazze sul tavolo e neanche sul lavandino. L’unico indizio della nostra conversazione sono i segni lasciati sul tavolo, che è ancora bagnato. È tutto in ordine, le sedie sono al loro posto, le bottiglie di alcool che fino a qualche ora fa giravano per la casa, sono sparite nel nulla. L’odore pesante che si sentiva prima, volatizzato nel nulla.
Gerald rientra tremante, strofinando le mani nel tentativo di riscaldarle, mandando un’occhiataccia alla moglie.
“Quella donna mi ucciderà un giorno” borbotta fermandosi accanto a me “Non potevamo aspettare domani per buttare quelle bottiglie, no, per forza adesso” si lamenta non intenzionato a togliersi la giacca. “Ve ne state già andando?” chiede accorgendosi della valigia.
“Si, c’è stato un problema in azienda e dobbiamo andare a risolvere subito… mi dispiace, so quanto ci tentavate a riavere Amirah qui” L’uomo scuote la testa, con un leggero sorriso “No, so quanto ama il suo lavoro. E poi, ci rivedremo comunque tra qualche settimana per festeggiare il compleanno di Manuel” esclama entusiasta “Questa volta però a New York”
Alla vista della sua felicità, sorrido annuendo. “Ne sono contenta. Sarà un piacere rivedervi” dico stringendogli la mano.
“Prenditi cura di mia figlia… per quanto molti non sarebbero d’accordo, mi fido di te Miray” dice con le lacrime agli occhi. “Ho avuto la possibilità di conoscerti, e sono contento che ci sia tu al suo fianco” annuisco grata, lasciandogli il tempo di abbracciare Amirah.
Subito dopo due braccia mi avvolgono le spalle, e un profumo delicato inebria la mia mente. “Non prendere quello che ti ho detto poco fa come una minaccia, ma un avvertimento” bisbiglia, lasciandomi andare per raggiungere il marito. Gli salutiamo un’ultima volta, entrando nel taxi che ho chiamato personalmente, allontanandoci e lasciandoci alle spalle i giorni passati in una bolla.
“All’aeroporto di Miami per favore”
Mi appoggio allo schienale del sedile posteriore dopo avergli comunicato la nostra destinazione, guardando fuori. Amirah non ha intenzione di proferire parola, troppo intenta a guardare a sua volta le case e il mare a cui passiamo accanto.
“Hai deciso di ignorarmi?” domando senza voltarmi.
“No, semplicemente non so cosa dirti…non so cosa pensare”
Annuisco sospirando, chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dai movimenti dell’auto. È inutile continuare a convincere Amirah che firmare il contratto sia la cosa giusta, non comprenderebbe comunque. Per quanto sia a conoscenza delle molteplicità di contratti esistenti, questo è uno di quelli che vuole evitare il più a lungo possibile. Sarà disposta a firmarlo per me?
Vengo svegliata da una frenata brusca da parte dell’autista, che vedendomi sobbalzare si scusa con imbarazzo. Sbatto le palpebre cercando di riprendermi dal sonno, accorgendomi di essere arrivate all’aeroporto. Scendendo dall’auto controllo l’ora notando di essere arrivate in tempo. Un aereo, più piccolo rispetto agli altri, vola in alto, scendendo piano piano in pista. Nonostante il buio della notte, le luci che illuminano l’aeroporto, mi permettono di riconoscere il jet.
“È arrivato” dico prendono la valigia dal bagagliaio, avviandomi verso l’edificio con Amirah alle mie spalle che non osa fiatare. Passato il check-in, e veniamo portate fino alla pista da uno dei dipendenti, che con le borse agli occhi, tentò di rivolgerci un sorriso di benvenuto, che invece di risultare cordiale, sembrò una smorfia di disprezzo.
Salire sull’aereo non fu difficile per nessuna delle due. Il pilota ci aspettava all’interno, salutandoci con un mezzo inchino, e un sorriso. Le hostess erano ferme, accogliendoci a loro volta con un sorriso, offrendoci subito dopo qualcosa da bere. Declinammo con gentilezza, sedendoci distanti sul jet, intente ad ignorarci fino al nostro ritorno a New York.
Il viaggio fu lento e silenzioso. La cagione di questo era ovviamente il contratto, ma non riuscì non pensare che ci fosse altro sotto, una motivazione nascosta che non avrei scoperto in questo momento.
Le luci sottostanti nascondono l’iniquità che si rifugia negli angoli più oscuri, nascondono luoghi pieni di empietà, comprendo le strade brulle. Da quassù, tutto sembra un dipinto, chiaro e colorato da mani delicate.
Nonostante questo, appena scese dall’aereo, l’aria che ci accolse non fu inebriante come a Miami. L’odore rancido raggiunse le nostre narici, facendomi storcere il naso dal cattivo odore. Amirah che mi camminava accanto, sembrava non accorgersi di tutti questi particolari, anzi, proseguiva per la sua strada senza degnarmi di uno sguardo.
“Andiamo in azienda” fu l’unica cosa che disse a un passo dalla mia auto parcheggiata fuori dall’aeroporto.
                                                                                     ***
“La vuoi smettere di girare per l’ufficio?” chiedo stravaccata sul divano, troppo stanca per alzarmi e fermarla fisicamente. Una frase esclamato con poca convinzione, dovrebbe bastare per placare il suo animo irrequieto. “Siediti almeno, così non svieni dalla stanchezza” altre parole che sembrano entrarle da un orecchio per uscire dall’altro.
“Non credo di essere pronta a scoprire la verità” mormora ansiosa Amirah, appoggiandosi una mano al petto. “Non voglio che tu mi dica niente…” continua a blaterare, con la pia illusione di poter scappare dalla dura verità.
“Ok”
“Ho bisogno di pensare” dice, prendendo la sua borsa “Non mi seguire” esclama in fine uscendo dall’ufficio. La seguì comunque, non potendo lasciarla tornare a casa da sola a quest’ora della notte. Non siamo a East St. Louise dove sono cresciuta, di certo non troverà gang a girovagare per le strade, non ci saranno sparatorie con vittime innocenti, niente caos, niente ingiustizie e comportamenti disumani, ma il pericolo è sempre alle porte. In ogni attimo, in ogni piccolo e insignificante istante.
“Lascia che ti accompagni a casa” dico standole dietro, facendo fatica a mantenere il passo.
In maniera concitata, si volta picchiettando con forza l’indice sulla mia spalla, spingendomi indietro.
“Non hai capito che non voglio vederti?!” afferro la sua mano annuendo, lasciandole delle chiavi sul palmo.
“Prendi almeno la mia auto” le dico supplichevole. Le sue dita si stringono attorno all’oggetto spigoloso, e senza aggiungere altro, riprende a camminare. Questa volta non la seguo, lasciandole i suoi spazi e il tempo necessario per trovare il coraggio di scoprire cosa sta succedendo. Fino ad allora, manterrò le distanze, cercando di rispettare i suoi desiderii più profondi. Cercando di lasciarla a risolvere le sue insicurezze e paure, fino a quando non sarà uscita da quel vortice di emozioni negative che la perseguitano da quando ci siamo incontrare per la prima volta.
Chiamo Melissa che a quest’ora sta sicuramente dormendo, ma stranamente risponde dopo tre squilli, e la sua voce non suona per niente impastata dal sonno.
“Miray! Che succede?” chiede eccessivamente euforica. Delle risate in sottofondo mi fanno corrugare la fronte. “Zitto…” sussurra la donna dall’altra parte del telefono, probabilmente pensando che non potessi sentirla.
“Ho bisogno che tu mi venga a prendere in azienda” tace subito, lasciando che il silenzio si impossessi della nostra chiamata?
“Sei qui a New York?” chiede con agitazione. “Perché? Dov’è Amirah?” domanda a raffica preoccupata.
“Ti spiego tutto dopo, prima vienimi a prendere che qui inizia a fare freddo ed è abbastanza inquietante” rispondo, sentendo un leggero trambusto.
Il rumore continua, un suono simile ad un telefono che cade per terra e a due paia di passi che si muovono frettolosi, Melissa che mi dice di aspettarla lì dove sono e poi la chiamata si interruppe improvvisamente. Rimasi nel buio della notte per qualche minuto troppo a lungo. Se doveva metterci quindici minuti a raggiungermi, ce ne mise il doppio.
“Non credo ci sia traffico a quest’ora della notte, vero?” imbarazzata, Melissa si gratta il capo, tenendo una mano sul volante con disinvoltura. “Con chi eri?”
“Nessuno, stavo dormendo ecco perché ci ho messo tanto” dice, tentando di rimediare al suo ritardo.
“Smettila di tediarmi, non ero con nessuno” brontola mentre rasenta uno dei muri che delimitano la strada.
“Ok, allora visto che devo spiegarti cosa è successo, andiamo a casa tua. Abbiamo tutta la notte davanti per chiacchierare liberamente” dico con un amplio sorriso, prendendola in giro.
“No, voglio dormire” borbotta lentamente, cercando di non far trapelare niente.
“Ci metterò poco a raccontarti tutto, poi potrai dormire” rispondo ignorando il suo disagio. “Forza Melissa, non ho intenzione di stare in macchina un minuto di più”
Il tragitto continuò senza che nessuna delle due pronunciasse più un’altra parola.
“Hai lasciato la luce accesa? Perché se non è così, credo che qualcuno ti sia entrato in casa” dissi guardando da fuori le luci del piano superiore, accese. Cogliendo la palla al balzo, mi afferra per l’avambraccio, tirandomi dietro di lei.
“Forse dovremmo chiamare la polizia” esclama con finta preoccupazione. Afferra il telefono sotto al mio sguardo per niente convinto. Le sfilo l’aggeggio dalle mani, avviandomi verso la porta di casa.
“Ho affrontato di peggio di un ladro disperato” esclamo facendole cenno di aprire la porta. Senza più restrizioni tra noi e chi c’è in casa, entriamo nell’abitazione.
“Non pare qualcuno sia entrato da qui” il primo piano è completamente in ordine, niente è fuori posto; la serratura della porta non è stata scassinata e i cassetti dei mobili sono dove dovrebbero essere.
Saliamo le scale, che riusciamo ad intravedere grazie alla luce proveniente da dietro una porta socchiusa.
“Mi dispiace” sussurra Melissa con lo sguardo puntato per terra. I dubbi di poco fa aumentarono a dismisura; mi stava nascondendo qualcosa, o meglio, qualcuno e in quel momento, avevo tutte le intenzioni di scoprire chi.
“Sei tornata in fretta, hai scoperto cosa è successo?” un Kayden a petto nudo, sdraiato su un letto disfatto, intento a leggere un libro, si presenta davanti ai miei occhi.
“Siete voi a dovermi delle spiegazioni”

POV Melissa
Sapevo a cosa sarei andata in contro se l’avessi portata fino a casa, ma prima o poi l’avrebbe scoperto, con o senza la mia volontà. Il mio desiderio di tenere tutto nascosto, era destinato a morire sin da subito; o Miray scopriva tutto, oppure Kayden si sarebbe stufato a vivere questa relazione nell’oscurità. Meglio adesso che siamo agli inizi, piuttosto che più avanti, dove sicuramente si sarebbe sentita tradita dal mio comportamento.
“M-Miray, che ci fai qui?” l’uomo rilassato di poco fa, stravaccato sul materasso come se fosse a casa sua, si alzò subito in piedi spostando gli occhi dai miei, un vortice infinito di emozioni contrastanti, a quelli privi di sentimento di Miray.
“Ti chiederei la stessa cosa se non fosse per il fatto che già avevo dei dubbi…confermati ovviamente” dice senza cambiare espressione, facendosi largo nella stanza. “Da quanto va avanti questa storia?”
“Dal primo giorno che ci siamo incontrati…” alla risposta di Kayden annuisce Impercettibilmente, la mani incrociate dietro la schiena e le spalle rigide come se si stesse difendendo da qualcosa. La stavamo portando piano piano a rivolgersi contro di noi. Conosco Miray, e non è mai stata una persona che si schiera contro agli altri perché si diverte, se lo fa, vuol dire che è stata portata fino a quel punto dalle continue scuse e accuse che le sono state rifiliate di giorno in giorno.
“Non sapevo come dirtelo. Con la questione del matrimonio tra voi due, il fatto che Amirah non sappia niente e il futuro dell’azienda in ballo, ho preferito mantenere un profilo basso; se nessuno che per me importante sa e scopre quello che sta succedendo tra di noi, nessuno lo verrà a sapere. Ingenuamente pensavo questo…” dico avvicinandomi. Rilassa le spalle riconoscendo la sincerità nel mio tono di voce. Senza dire altro, afferra una maglietta da terra, quella che Kayden si era tolto ore fa, lanciandogliela.
“Rivestiti, inizi a farmi accapponare la pelle. Sembri un cazzo di stupido lì fermo impalato” esclama con un sospiro. “Non mi interessa se sia nato qualcosa tra di voi, sai che non provo niente per Kayden, è solo un amico, semplicemente preferivo venirlo a sapere da te” dice senza farsi troppi problemi “Ma capisco anche perché tu l’abbia fatto…in questo momento sono più che altro gelosa di quello che avete. Nonostante sappiate il destino che vi aspetta, non vi lasciate fermare” sussurra tristemente.
“Cosa è successo con Amirah?” chiede Kayden completamente vestito, accompagnandola giù in cucina. Dietro di loro osservo come entrambi si trovano a loro agio uno accanto all’altro. Dopo quello che le è successo con Noah, non ha mai più lasciato che un uomo le stesse così vicino, che la consolasse e soprattutto non si è mai fidata del genere maschile. Con Kayden, che ha quella gentilezza e sensibilità che lo caratterizza, sembra tutto cambiato, come se quei pensieri, quei ricordi bui si siano completamente cancellati dalla sua mente. Se non fosse per il fatto che conosco tutti e due, penserei subito che tra di loro ci sia più di una semplice amicizia.
Sapere che ora oltre a me, Arisa e Jeffrey ci siano anche Kayden e Amirah accanto a lei, pronti a sorreggerla, mi scalda il cuore. Quella donna che per tutta la sua vita ha pensato di rimanere sola, si è ritrovata a dover condividere la sua vita, la sua casa, il suo letto e la sua azienda con più di una persona.
Mentre Miray racconta ciò che è successo a Miami, le preparo qualcosa da mangiare. Il volto smunto, la voce bassa e debole, le gambe che tremano e gli occhi vuoti, mi stringono il cuore in una morsa. Ormai ero abituata a vederla così, più di una volta, ma non riesco più a tollerare che quelle sensazioni di inadeguatezza e odio verso sé stessa prendano il sopravvento.
Miray non lo ammette mai, si dimostra sempre tenace, priva di difficoltà e ostacoli, solo per non dare a nessuno la possibilità di attaccarla e ferirla.
“È venuta a scoprire del contratto…il mio avvocato ha sbagliato e l’ha mandato ad Hana per farlo firmare ad Amirah. La ragazza di Diana ha voluto prima chiedere chiarimenti a me, ma Amirah ha letto il messaggio prima che io potessi farlo”
“È sua madre ti ha minacciata” concludo appoggiandole davanti un piatto di insalata “Per non appesantirti” affermo non appena mi accorgo dell’occhiata che mi sta rivolgendo. Kayden ride sotto i baffi non esistenti, lanciandomi di sfuggita un occhiolino.
“Si, esatto”
“Hai provato a parlarle?” la domanda che il giovane Forbes le rivolgere mi fa scuotere la testa in dissenso.
“Cosa pensi Kayden, che l’abbia semplicemente lasciata andare senza tentarci?”
L’espressione nel volto di Kayden mi fa sorridere. Le sopracciglia alzate, gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta. Riprendendosi alza le mani in segno di resa, rubandole una foglia d’insalata, mangiucchiandola come un bambino in punizione.
“Le lascerò il tempo di cui ha bisogno”

Who wins? (girlxgirl) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora