CAPITOLO 19

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Guardo fuori dal finestrino dell’auto, e a differenza delle altro notti, le luci sono fioche, le insegne prive di lettere.  L’asfalto che prima era bagnato, adesso è coperto di fiocchi di neve che sembrano accumularsi l’uno sull’altro. Un uomo sul ciglio della strada prende a calci il pneumatico bucato, inveendovi pesantemente, incredulo da quello che è successo. Tutto completamente diverso, come se fosse bastata una notte a cambiare le condizioni di New York.
E forse è così, le cose, come gli uomini cambiano repentinamente, senza che nessuno se ne accorga, o forse siamo noi i primi a chiudere gli occhi di fronte a ciò che non ci piace, e quando la verità si presenta davanti a noi, rimaniamo sbalorditi dal marcio che c’è sotto a tutta quella bellezza che prima vedevamo.
Dopo l’episodio successo in ufficio, io e Melissa abbiamo deciso fosse il momento di tornare a casa, comunicando anche a tutti i dipendenti che potevamo pure tornare dalle loro famiglie e prendersi un giorno di riposo; non c’è bisogno di dire che siano stati estasiati dalla notizia. Dopo essere andate entrambe per la propria strada, ho chiamato Jeffrey chiedendogli di venirmi a prendere; non ero nelle giuste condizioni per guidare. Con la testa appoggiata al finestrino, non posso che pensare a lei a quello che accadrà d’ora in poi.
Amirah, Amirah e solo Amirah.
La mia mente è piena di immagini e ricordi di lei, dei suoi gesti, delle sue parole, il modo elegante in cui cammina, come gesticola quando si emoziona di fronte a qualcosa che le interessa…tutto di lei.
Non so dove stiamo andando con tutta questa storia…due aziende che collaborano strettamente, due donne a capo di esse che stanno insieme. Mai niente di bello esce da situazioni del genere, troppo intricate da risolvere. Prima o poi tutto ci esploderà in faccia.
“Signora, siamo arrivati” la voce di Jeffrey mi riporta alla realtà. L’auto si ferma davanti al ristorante dove si trovano Diana, Hana e Amirah. “Vuole che la accompagni fino al tavolo?”
“SÌ, per favore” Jeffrey mi rivolge uno sguardo preoccupato. Non ho mai supplicato nessuno, sono sempre andata avanti per conto mio, senza l’appoggio delle persone accanto a me, troppo testarda per fidarmi. Questo cambio di atteggiamento risulta strano ai suoi occhi. Come posso biasimarlo, per quanto mi fidi di lui, non sa cosa succede nella mia vita e soprattutto non sa cosa è successo anni fa.
Jeffrey apre la portiera, porgendomi il suo braccio come appoggio. Lo afferro saldamente, lasciandomi accompagnare da lui su per le scale fino al tavolo. Lo ringrazio con un cenno del capo, lasciandolo tornare a casa da Arisa.
Il ristorante è dei più costosi a New York. Pochi tavoli si trovano attorno a noi, occupati prevalentemente da persone di alto rango; politici, CEO, attori e cantanti che si possono permettere di venire qui a cena, senza dover spendere tutti i loro risparmi. Lampadari che costano più di un’umile casa al di fuori di New York oscillano sulle nostre teste, come ombre pronte a scendere per farci fuori. Le pareti sono di un colore tendente all’oro, sicuramente fatto apposta per dare al ristorante un’aria ancora più regale, il tutto accompagnato con delle tende ricamate sicuramente a mano, che contornano le grandi vetrate. Anche i camerieri, eleganti come non mai, si mischiano nell’atmosfera del ristorante. Girano come fantasmi, passi leggeri e movimenti veloci per non disturbare a lungo gli ospiti seduti; piatti appoggiati con veloce perfezione, bicchieri sempre pieni così come i tavoli, mai privi di cibo.
“Ben arrivata!” ovviamente la prima a darmi il benvenuto è Diana, che esuberante come non mai mi porge un calice di vino.
“Provalo, è buonissimo” lo annuso guardando Diana con finta diffidenza.
“Non è che è avvelenato?” Diana capisce subito dove sto cercando di arrivare, sorridendo radiosa.
“Per tua fortuna questo non è l’attacco dei giganti, non ti trasformerai magicamente” annuisco bevendo un sorso. Rimango sorpresa dal sapore dolce e delicato che ha, sgranando leggermente gli occhi.
“Hai ragione, è davvero buono” rispondo, bevendone ancora
“Uno dei migliori” sussurra Amirah “L’ho ordinato personalmente” si vanta, lanciandomi un occhiata di sfida.
“Si è proprio superata signorina Aceveds” il piccolo battibecco viene interrotto da Hana, che cambia discorso.
“Siamo qui per rilassarci, non per discutere” ci riprende con leggerezza, lanciandoci comunque un’occhiataccia. Seduta accanto ad Amirah, appoggio la mia mano sopra la sua, che è sul tavolo.
“Prima di iniziare qualsiasi discorso, ordiniamo da mangiare che ho fame” tutte d’accordo con Diana chiamiamo uno dei camerieri alzando la mano, che vedendoci quasi corre verso di noi ansioso. Dopo aver preso quello che volevamo, ci lasciano andare a racconti e aneddoti.
“Amirah è sempre stata così. Le piace l’arte, ne va pazza. Quando era piccola, ogni volta che veniva a trovarmi aveva le mani sporche di colori. Non c’era modo di convincerla a pulirsi, diceva sempre che una volta tornata a casa si sarebbe sporcata ancora, e che quindi non aveva senso” la persona in questione cambia colore dalla vergogna. Con il volto erubescente, allontana il piatto ormai vuoto, cercando di far finta di niente.
“È una cosa che fa ancora oggi, ma almeno adesso ha la decenza di pulirsi le mani prima di uscire” Sorrido pensando ad una Amirah adolescente e spensierata che si diletta in quello che ama più di tutto. Non sembra tanto cambiata dall’immagine che Hana sta delineando. Una donna a cui non interessa il pensiero degli altri, che va avanti per la sua strada nonostante tutti le dicano che quello che sta facendo è fuori dal normale.
Una caparbietà mai vista prima. Se si mette in testa qualcosa, lo fa.
“Non hai mangiato quasi niente” la voce di Amirah giunge molto vicina alle mie orecchie.
“Non ho fame” rispondo annoiata e sovrappensiero.
“Riesco quasi a sentire i tuoi pensieri. Che succede?” chiede apprensiva. Cerco di rispondere con disinvoltura, ma lo sguardo che mi rivolge è abbastanza da farmi capire che non crederà alle scuse che cercherò di profilarle, quindi cambio tattica.
“Niente di importante” neanche il tentativo di minimizzare le mie preoccupazioni sembra convincerla del tutto.
“Devi imparare a condividere i tuoi problemi Miray. Nessuno delle persone sedute qui è tua nemica”
Non tutti sono tuoi nemici, è vero, ma ho anche imparato a non considerare tutti miei amici; è la prima regola che si impara non appena si entra a fare parte di questa vita. Tuttavia non posso biasimarla, non è cresciuta tra spari, droghe e dipendenze di ogni genere, non sa quanto l’essere umano possa essere crudele e privo di scrupoli per raggiungere i propri obiettivi; la fortuna è stata ed è dalla sua parte. Non conosce la vera sofferenza e mai dovrà.
Sospiro acquiescente, non in vena di disquisire con lei in un ristorante.
“Domani ho intenzione di parlare con il signor Spouse” Amirah mi scruta attentamente, quasi alla ricerca di qualche risposta a domande che si pone ormai da tempo, ma non indulge ulteriormente.
“Melissa mi ha detto cosa è successo. Come vuoi agire?” sorrido impercettibilmente, al quanto contenta del rapporto che le due donne stanno piano piano instaurando.
“Glielo chiederò di persona” rispondo senza troppi giri di parole.
Il discorso viene chiuso poco dopo, io con la forchetta in mano che giro il cibo nel piatto e lei che non smette di guardarmi con un cipiglio.
La serata continua senza disguidi, la calma si propaga come un’onda, una di quelle delicate che ti accarezzano lentamente per farti addormentare. Veniamo cullate dal vento che soffia dalle finestre socchiuse, raffreddando le gote di chi avendo bevuto oltre al limite, sente andare a fuoco.
Diana si alza da tavola con la scusa di dover andare in bagno, lasciandoci ad aspettarla.
“Sono solo le dieci, non capisco il motivo di tanta fretta” brontola Hana imbronciata, ancora intenta a capire il motivo per cui la sua ragazza voglia andarsene dal ristorante al più presto.
“Avrà i suoi motivi. Può darsi che abbia visto qualcuno di spiacevole” la mia risposta sembra turbarla ulteriormente, tanto che inizia a piegare il tovagliolo che ha davanti, con movimenti frenetici e sconnessi. Un piccolo schiaffo, quasi come la carezza di una piuma, mi viene dato da Amirah, che non curandosi del gesto insensato appena fatto, cerca di rassicurare la sua migliore amica.
“Se fosse davvero così, saresti la prima a saperlo” annuisco fintamente d’accordo con le parole della donna che ho accanto, accorgendomi di Diana che si avvia verso la cassa furtivamente, cercando di scappare ai nostri occhi.
“Non provarci nemmeno…” sussurro tra me e me. Il rumore della sedia che viene spostata attira l’attenzione delle altre due donne a tavola con me, che mi guardano entrambe con un sopracciglio inarcato, spaventosamente in sincronia.
Raggiungo Diana a grandi falcate, bloccandola prima che possa mettere la mano in tasca per pagare.
“Cosa pensi di fare?” esclamo a denti stretti.
“Non stasera Miray, non possiamo fare scenate” risponde supplichevole. “Lasciami fare questa cosa solo una volta…per favore” guardando il modo in cui dall’espressione del suo volto si può intravedere l’ansia venire a galla ad ogni minuto che passa, allenato la presa. “Fidati di me” la lascio andare, permettendole di andare avanti nel suo movimento e tirare fuori i soldi per pagare. Torniamo da Hana e Amirah, scortandole, con una mano appoggiata sulla parte bassa della loro schiena, fuori dal ristorante illuminato e sulle strade buie di una New York ancora sveglia e in movimento.
“Dove andiamo?” ancora non completamente consapevole delle intenzioni di Diana, la guardo, trovando che a sua volta mi sta osservando come in cerca di un aiuto da parte mia.
“Facciamo semplicemente un giro per smaltire quello che abbiamo mangiato” rispondo banalmente alla sua ragazza, facendo una smorfia subito dopo, non appena mi rendo conto della scusa che ho cercato di profilare. Hana annuisce, come se la mia risposta avesse senso, mentre Amirah mi si avvicina.
“Davvero stiamo camminando per questo?” una piccola risata fuoriesce dalle mie labbra, facendo al contempo sorridere Amirah che scuote la testa, avendo già capito che quello non è il vero motivo.
“Andiamo di là” Diana indica una viuzza non tanto lontana, poco illuminata e priva di auto. Veniamo trascinate dalla veemenza con cui cammina, passi lunghi e veloci che la fanno allontanare da noi. Non appena si accorge dalla distanza creatasi torna indietro imbarazzata, scusandosi talmente velocemente che non capiamo cosa stia dicendo. Dopo averla calmata proseguiamo senza intoppi, accompagnate dal rumore dei nostri passi e dei nostri respiri. Una piccolo cerchio di nebbia si crea ad ogni espirazione, contornando i nostri volti freddi in un aureola illuminata dalla luce della luna piena.
Giriamo l’angolo percorrendo il vicolo fino a raggiungere una piazzola che porta ad un altro vicolo ancora più stretto. St. Ave legge il cartello nascosto dietro ad un edificio.
Diana si ferma, prendendo un respiro profondo sotto gli occhi meravigliati di Hana che si guarda attorno stupita. Priva di nequizia Amirah mi si avvicina per sussurrarmi qualcosa.
“Non pensavo Diana fosse così romantica”
“Concordo”
È sempre stata una di quelle ragazze a cui non importava niente del proprio aspetto e soprattutto non le interessava soddisfare gli altri. Il gesto di portare la donna che ama in un posto del genere, non è da lei, o almeno, non della Diana che conoscevo. È tutto adornato di fiori, luci che illuminano ogni angolo creando ombre che si sovrappongono quasi come in un abbraccio e candele profumate sparse su tavoli appoggiati alle pareti degli edifici. Il fiume che divide Manhattan dalle altre isole si distende davanti ai nostri sguardi, calmo e azzurro, lo stesso colore degli occhi di Rebeka. Da qui, appoggiate alla ringhiera sopraelevata, possiamo vedere in lontananza le isole Queens e Brooklyn; una vista mozzafiato.
Il vento che soffia spostava i nostri capelli, coprendoci gli occhi per qualche secondo, come per prepararci ad una sorpresa; e così era. I capelli tornano al proprio posto, e il fiume cambia. Se prima era piatto e azzurro, poco dopo è nero e tempestoso.
Improvvisamente le luci si spengono, l’unica fonte di illuminazione proviene dalle poche candele sparpagliate per la piazzola.
Diana, che da l’impressione di essersi ammalata, pallida e tremolante, si inginocchia frugando nella tasca del suo cappotto tirando fuori una scatola. Hana è ancora girata, dandole le spalle, ancora troppo intenta a perdersi nella vista che ha davanti.
Amirah mi stringe il braccio osservando la scena con occhi sgranati.
“Hana…” il tentativo da parte di Diana di richiamarla sembra non funzionare.
“Hana” questa volta prova Amirah, ma la voce le esce talmente bassa che faccio fatica anche io a sentirla.
Diana, in preda all’ansia e al terrore fa per alzarsi, ma la blocco, appoggiandole una mano sulla spalla e spingendola giù in ginocchio.
Mi avvicino ad Hana, prendendola per un braccio e facendola voltare verso la sua amata. Inizialmente rimane impassibile come una statua. Occhi fissi sulla scatola, braccia ferme lungo i fianchi e sembra non respirare affatto.
“Hana… so che può sembrarti affrettato, ma questa non è una vera e propria proposta di matrimonio, quindi per favore non rimanere lì ferma a guardarmi in quel modo” l’avvocato sembra riprendersi, confabulando qualcosa a bassa voce. “Voglio che tu mi ascolti attentamente. Io, Diana ti prometto che qualsiasi cosa dovesse succedere, mi fiderò di te e delle tue intenzioni. Prometto di amarti fino al mio ultimo respiro, anche non dovessi più volermi accanto a te. Davanti a loro due come testimoni – sposta gli occhi verso me e Amirah che come delle prede davanti al loro predatore rimaniamo immobili – prometto di portarti rispetto fino alla fine” apre il cofanetto, mettendo in mostra l’anello al suo interno. Una piccola pietra rossa incastonata alla perfezione in un solco d’argento. Elegante ma al contempo umile.
“Ha senso tutta questa cosa?” la domanda di Amirah mi fa ridere, una risata simile ad un grugnito che pare riportare in sé le due donne ancora intente a guardarsi amorevolmente. Mi scuso immediatamente con una mano che mi copre le labbra, cercando di ridere in silenzio per non disturbarle.
“Non fate caso a noi” esclama Amirah, guardandomi furtivamente cercando a sua volta di trattenere una risata, tuttavia la frase successiva rende tutti i nostri sforzi inutili.
“La luna come testim-“ mi porto una mano al volto sconsolata mentre la donna che ho accanto si piega in due dal ridere, con le lacrime agli occhi.
“Oh no, fermati pure, direi che hai già detto abbastanza” esclamo sconvolta dal suo misero tentativo di rendere l’atmosfera ancora più speciale. Hana sorride con dolcezza, intenerita dalla sua ragazza.
“Avevamo ragione, Diana non è per niente romantica” Amirah annuisce d’accordo con me, mentre decidiamo di allontanarci per lasciarle il loro spazio. Le due si incontrano in un abbraccio, uno di quelli attraverso il quale si trasmette calore e affetto.
“Devo fare anche io un gesto del genere per chiederti di diventare la mia ragazza?” poco più lontane da Hana e Diana, Amirah mi pone una domanda alquanto scomoda.
“Preferisco i dettagli, le piccole attenzione. Niente di estravagante” rispondo con le mani nelle tasche del cappotto e lo sguardo rivolto verso l’alto, nel tentativo di non guardarla negli occhi.
“Se te lo chiedessi adesso?” mi irrigidisco immediatamente, pensando all’incontro di stamattina.
“Risponderei di no” Amirah non si scoraggia, rimanendo ferma con uno sguardo neutrale, serena e a suo agio nel buio come un sicofante in agguato, pronta ad attaccare non appena compi un errore.
“Scacco matto”
                                                                                      ***
L’ambiente di lavoro rimane sempre lo stesso. Monotono, fatto di scartoffie e incontri per prendere decisioni importanti che non possono essere concordate senza di me, discussioni spiacevoli e litigi tra dipendenti che non sembrano finire, ma nel frattempo, tutto quello a cui riesco a pensare è la domanda di Amirah di ieri sera, che non sembra volermi lasciare in pace. Sono quelle le sue intenzioni? Diventare la mia ragazza…assurdo, cosa pensa di ottenere da me? Baci, abbracci e attenzioni? Assurdo, completamente assurdo e fuori da questo mondo. Non potrei mai trattarla come merita… sicuramente non sono la persona che cerca e che vuole accanto; è semplicemente confusa.
“Dov’è finito?” Melissa che fino a poco tempo fa era in silenzio, sembra risvegliarsi dai suoi pensieri e cercare di rispondere.
“Non lo so… è stato chiamato circa quindici minuti fa” e proprio in quel momento, qualcuno bussa alla porta, aspettando rispettosamente l’invito di entrare.
“Avanti” elegante e apparentemente sicuro di sé, il signor Spouse entra lasciandosi dietro le voci degli altri dipendenti in riunione e il rumore dell’ascensore che si chiude.
“Volevate vedermi?” nonostante il tentativo di mostrarsi pienamente sicuro dei suoi valori, la voce che trema impercettibilmente, lo tradisce immediatamente.
“Si sieda” indico il posto libero davanti alla scrivania. Melissa, fino a poco fa seduta sul divano, mi raggiunge fermandosi alle mie spalle, incatenando con lo sguardo l’uomo che diventa sempre più piccolo pian piano che la tensione sale.
“Ho il presentimento che lei già sappia il motivo per cui è qui, o sbaglio?” se è stato colto di sorpresa ha la decenza di non dimostrarlo, anzi, allarga le spalle nel vano tentativo di sembrare più possente di quanto non lo sia davvero; un inutile tentativo di intimidirmi.
“Sinceramente non so di cosa stia parlando. Può essere più specifica?” tiro fuori dal cassetto chiuso a chiave la foto e il coltello, spingendomi verso di lui. Il suo atteggiamento cambia drasticamente. Se prima era minimamente sicuro di sé, adesso tutto sembra crollare, ogni sua convinzione strappata via dalle sue mani con aggressività e ogni sua sicurezza infranta con un sassolino lanciato da lontano.
“Sono stata abbastanza dettagliata signor Spouse?” il suo collo si muove freneticamente su e giù, come se facesse fatica a deglutire le parole che vogliono uscire dalla sua bocca e avesse bisogno di riprovare più e più volte a ciacciarle giù.
“Cosa vuol dire tutto questo?” la sua ritrovata impavidità mi colpisce, tanto che mi lascio scappare un sorriso che però lui sembra interpretare come una minaccia imminente. Per cercare aiuto, alza lo sguardo su Melissa, che però non sembra per niente intenzionata a mollare la presa, ma anzi, a rincarare la dose.
“È sicuro? Nella vita è meglio essere sinceri…si viene ripagati” il signor Spouse rilascia un respiro pesante, tirando dalla tasca dei pantaloni il telefono.
“Mi hanno chiesto di farlo, non ho potuto rifiutare” si arrende, avvicinandosi alla scrivania e appoggiando i gomiti su di essa, confabulando cose senza senso, mentre maneggia il telefono alla ricerca di qualcosa; prove della sua innocenza.
Mi allunga l’aggeggio che sembra una scatola più che un cellulare che potrebbe permettersi con i soldi che ha. Dei messaggi, mandati da quel che sembra un numero sconosciuto, compaiono davanti ai miei occhi. Richieste diverse, tutte immediatamente rifiutate da parte del signor Spouse, finché non è stato minacciato.
“Quindi è per questo che ha lasciato la lettera e il coltello nel mio ufficio” rifletto ad alta voce continuando a leggere, non aspettandomi una risposta.
“Si signora, ho sempre rifiutato, ma quando poi ha iniziato a minacciare la mia famiglia, non ho retto”
“Sa dirmi chi è?” la domanda sembra farlo irrigidire. Un velo d’ombra copre i suoi occhi, rammaricato per quello che sta per dirmi.
“Mi dispiace, ma non ho mai incontrato questa persona…non sono di grande aiuto. L’unica cosa che sono riuscito a scoprire, è che non lavora qui dentro” annuisco alle sue parole, porgendogli indietro il telefono che afferra frettolosamente e con due dita, come per cercare di non toccarmi e di sfiorarmi.
“Può andare” si alza spingendo la sedia all’indietro, facendola strisciare per terra creando uno stridio fastidioso che però ignoro completamente.
“Grazie mille signora” sussurra quell’ultimo frase, per poi scappare fuori senza girarsi indietro.
“Non ho idea di chi possa essere” esclamo ad alta voce, girandomi verso Melissa. “Ci sono tante persone che vorrebbero farmi fuori…è impossibile capire chi sia il mittente di tutte queste minacce. Potrebbero essere anche due, tre o quattro le persone coinvolte in questa situazione”
“Non saprei…”
“Vuol dire che andremo avanti con questo gioco. Subiamo finché possiamo, prima o poi farà un passo falso, e quando questo succederà, attaccheremo” dico allontanandomi. “Adesso devo uscire. Se qualcuno mi cerca, digli che non sarò disponibile fino a domani”
                                                                                       ***
Esco dalle porte dell’edificio salutando con un cenno del capo gli uomini della sicurezza che controllano con diligenza i dintorni. Scendendo con l’ascensore decisi di lasciare l’auto nel parcheggio dell’azienda e di camminare all’aria aperta, avendo bisogno di non sentirmi rinchiusa e di distrarmi. Un giorno libero dopo mesi di lavoro senza interruzioni.
Il telefono appoggiato all’orecchio squilla tre volte prima che la persona dall’altro lato risponda.
“Ha qualcosa?” chiedo attraversando la strada. Le scarpe, che fortunatamente non sono tacchi, lasciano sulla neve un’impronta più grande del normale, impattandola e facendole cambiare colore. Il bianco diventa grigio, ma il primo segno che indica l’abuso che sta subendo, non è il colore, ma il rumore che produce non appena vi viene fatta pressione. Un gemito di dolore e rabbia che a molti risulta rilassante all’udito. Il motivo? L’uomo si nutre di questo, della sofferenza degli altri, dei versi di dolore che fuoriescono dalle labbra di gente che nella vita ha solo subito. Cercando di camminare sul lato del marciapiede che non è ricoperto di neve, per non sentire il rumore fastidioso, quasi scivolo, provocando una risata bambinesca a qualcuno dietro alle mie spalle.
“Non ancora. Il signor Barton oltre ad incontrarsi con la donna misteriosa, si vede anche con un uomo che pare alquanto giovane. L’unico problema è che si vedono sempre di notte, dove la luce non arriva”
Ascoltando parzialmente le parole dell’investigatore, mi giro trovando Rebeka seduta su uno sgabello in legno, con ancora addosso il cappotto che le diedi al nostro primo incontro. Il sorriso smagliante che mi rivolge, mi fa addolcire, tanto che non riesco ad arrabbiarmi con l’uomo dall’altra parte del telefono.
“So che sta facendo del suo meglio, ma ho davvero bisogno di una bella notizia da parte sua. Appena trova qualcosa, mi chiami” il silenzio che arriva poco dopo la mia esclamazione, mi fa intuire che non si aspettava tanta gentilezza da parte mia.
“C-certo signora, la chiamerò io. Arrivederci”
Lo saluto a mia volta, andandomi a sedere accanto alla bambina che non distoglie per un attimo lo sguardo. I pantaloni che ho addosso si bagnano a contatto con il marciapiede innevato, ma non ci faccio caso.
“È da un po’ che non ti vedo, dove sei stata? Giro ogni giorno nei dintorni con la speranza di trovarti”
“I miei genitori sono tornati qualche giorno dopo esserci viste e non sono potuta uscire” dice con un tono di voce basso. Alle sue parole annuisco comprensiva, togliendomi i guanti dalle mani e porgendoli a lei, che con dita tremolanti e gelide le afferra grata, infilandosele a fatica. Il rossore che colora i suoi dorsi mi fa capire che è fuori da un po’.
“Andiamo a prenderci della cioccolata calda?” propongo con l’intenzione di farla scaldare. Entriamo in un bar poco più lontano, sotto lo sguardo incuriosito dei camerieri, alla vista di una bambina con addosso vestiti molto più grandi di lei. Ci avviciniamo al bancone, ordinando quello di cui abbiamo bisogno. Rebeka, troppo piccola per poter guardare la vetrina di dolci che si estende da destra verso sinistra, saltella in continuazione con occhi curiosi. La prendo in braccio, sorreggendola con una mano, mentre con l’altra le indico i diversi dolci, consigliandole quelli che ritengo i più buoni.
“Anche voi qui?” Rebeka si gira verso la voce, salutando con la mano che non sorregge il muffin, la donna appena entrata.
“Amirah!” esclama entusiasta la piccola, sporgendosi in avanti come per abbracciarla. La donna in questione si avvicina, lasciandole un bacio casto sulla guancia e cingendoci in una stretta amorevole.
“Mi stai inseguendo?” sussurro giocosamente ancora stretta tra le sue braccia.
“Sembro non riuscire a starti lontana” risponde a un passo dalla mia guancia, lasciandovi un bacio nello stesso modo in cui lo diede a Rebeka qualche secondo fa. Si allontana prendendo Rebeka e avviando si verso uno dei tavoli vuoti.
“Potresti prendermi la stessa cosa che ha ordinato questa bellissima bambina?” osservo Amirah fare le pernacchie ad una Rebeka intenta a mangiare il dolce tra le risate.
Le raggiungo a tavola poco dopo, porgendo una tazza ad Amirah e l’altra a Rebeka, che con le labbra sporche si fionda per assaggiarlo.
“Ferm-“ prima che possa bloccarla beve un sorso, urlando subito dopo di essersi bruciata la lingua.
“Te lo stavo per dire” borbotto per niente impressionata dalla sua reazione. Amirah ride, prendendo la tazza dalle mani della bambina, soffiandovi.
“Non funziona” questa volta a borbottare è Rebeka, che continuando ad osservare le azioni di Amirah, tira fuori la lingua cercando di raffreddarla. Amirah le silenzia, continuando con le sue azioni.
“Sembri un cagnolino” dico alla bambina dagli occhi azzurri, nel tentativo di prenderla in giro, ma senza risultato.
“Mi piacciono i cani!” risponde immediatamente con un sorriso enorme sulle labbra. “Ne hai uno?” chiede con un luccichio di speranza.
“No” la mia risposta non la soddisfa, ma si distrae non appena Amirah le ridà indietro la cioccolata. La beve tutta d’un sorso, godendosi il sapore che ha.
“Ha funzionato” il tono di voce sorpreso di Rebeka porta la donna dagli occhi verdi a sorridere altezzosamente, lanciandomi uno sguardo di superiorità, come per sfidarmi. La ignoro non riuscendo a fare a meno di sorridere davanti alla sua falsa arroganza.
Finiamo di bere e di mangiare, tornando fuori. Veniamo accolte dai fiocchi di neve che scendono lentamente, a rallentatore. Tre secondi per appoggiarsi alla mia mano protesa verso l’alto, tre secondi per toccare terra, tre secondi per sciogliersi.
Tenendo entrambe per mano, Rebeka ci porta in un parco occupato da poche persone, tutte sparse. Chi sotto ad un albero a chiacchierare, chi insegue i propri figli e chi come noi, cerca di mettere in piedi un pupazzo di neve.
La prima ad adoperarsi è Rebeka, che con i guanti che la coprono, inizia a creare la base per il pupazzo. Volendo aiutarla affondo le mani nella neve, sentendo immediatamente il freddo impossessarsi di me e pentendomene qualche attimo dopo. Amirah mi guarda con occhi sgranati, sposta lo sguardo dalla neve alle mie mani già completamente rosse e irrigidite.
“Non puoi prendere la neve a mani nude!” mi rimprovera subito Amirah “Sei una donna che gestisce un’intera azienda, e finisci per fare queste stupidaggini?” esclama sbalordita. Sorrido imbarazzata, cercando di nascondermi dietro alla sciarpa.
“Volevo aiutarla” sussurro di rimando, guardandomi i palmi delle mani coperti di neve e bagnati. Rebeka avendo assistito alla nostra discussione si toglie un guanto e me lo porge.
“Possiamo condividere. Non abbiamo bisogno di due mani, una va bene” dice con tutta la sua innocenza. Scuoto immediatamente il capo, allontanandole la mano.
“No piccola, ti servono tutti e due. Io starò semplicemente qui a guardarti e a dirti cosa fare” Rebeka sembra pensarci su, pesando le due opzioni. Alla fine si riprende il guanto rimettendosi a lavoro.
“Stupida” sussurra Amirah per non farsi sentire dalla bambina, prendendo le mie mani tra le sue per riscaldare. Le mani non sono le uniche a venir travolte da un calore inaspettato. Il tremolio si ferma, le guance si scaldano non appena veniamo a contatto e il cuore sembra intenzionato a prendere parte ad una maratona. Ignoro la sensazione che si fa largo dentro di me, dando la colpa all’imbarazzo provato poco fa.
Rimaniamo così ad osservare Rebeka fare progressi ogni minuto che passa, sotto i nostri consigli. Amirah si allontana da me solo una volta per aiutare Rebeka a posizionare la testa del pupazzo sul corpo ovale.
“Greg” esclama improvvisamente Rebeka, guardando con soddisfazione il cumolo di neve; le mani sui fianchi, le gambe divaricate e lo sguardo fiero.
Due forme sferiche una sopra l’altra, dei rametti posizionati ai lati per indicare le braccia, e tre buchi, due piccoli e uno grande, per la bocca e gli occhi. Volendovi dare un tocco in più, rimuovo la sciarpa che ho attorno al collo, mettendola attorno a “Greg”, avvicinandomi a Rebeka per sussurrarle che il suo amico ha freddo.
“Come fa a mangiare?” domanda Amirah inclinando il capo verso un lato, osservando attentamente il pupazzo. Rebeka corruga la fronte pensierosa, per poi accorgersi della mancanza della bocca.
“Greg non mangia con la bocca, si nutre della neve che cade dal cielo” risponde senza farsi fregare dalla domanda.
“Ah sì?” La donna che ho accanto mi lancia uno dei suoi guanti, abbassandosi per prendere in mano della neve e formandovi una pallina. La guardo capendo subito le sue intenzioni. Indietreggio lentamente, ormai completamente persa nel guardare le due persone davanti a me da essermi dimentica del rumore che si viene a creare ogni volta che si schiaccia la neve, abbassandomi a mia volta a prendere della neve con la mano guantata. La prima a sferrare un attacco è Amirah, che prendendo alle spalle è di sprovvista Rebeka, scatena il caos totale.
La piccola si gira stupita dall’accaduto, cercando di scrollarsi di dosso la neve, guardando incredula verso di noi. Occhi azzurri contro verdi e marroni.
“Sei stata tu!” urla incredula, puntandomi il dito addosso. Sbalordita dalla sua accusa alzo le mani in segno di difesa, cercando di persuaderla a colpire Amirah invece che me.
“Cosa ti fa pensare che sia stata io?!” chiedo presuntuosamente.
“Il cumolo di neve che hai in mano” risponde con convinzione la vera colpevole. Offesa dal modo in cui è riuscita a rivoltare Rebeka contro di me, le lancio la neve addosso, colpendola in faccia. Mi copro immediatamente le labbra, consapevole del grave errore effettuato e l’unica cosa che riesco a fare è ridere ed iniziare a correre via.
“Miray!” urla lanciandomi a sua volta la neve, ma mancando miseramente.
“Devi migliorare le tua mira!” le consiglio fermandomi momentaneamente a prendere fiato. Quello di cui non mi accorgo, troppo intenta a guardare Amirah che mi trucida con lo sguardo, sono un rumore di passi alle mie spalle. L’espressione della donna a qualche metro di distanza tramuta improvvisamente, e solo allora mi ricordo di Rebeka che non sembra essere nei paraggi.
La prima cosa che sento è l’impatto ravvicinato con la mia testa, poi l’acqua e infine il freddo. Amirah si piega in due dalle risate, sorreggendosi a fatica sulle sue gambe.
“Due contro uno…sleale. Un attacco a tradimento non è per niente rispettabile” brontolo non appena le due si avvicinano.
“Si fa di tutto per ottenere ciò che si vuole” sussurra Amirah, aiutandomi a togliere i restanti fiocchi di neve dai capelli. Rimango incantata dal colore dei suoi occhi, più verdi e vividi del solito.
“Hai degli occhi bellissimi” sussurro delineandovi con la punta delle dita i contorni.
“Grazie!” inaspettatamente a rispondere è Rebeka, che strappa ad entrambe un’altra risata, ma nonostante questo, Amirah non sembra intenzionata ad allontanarsi.
“Tu hai un cuore bellissimo”
Rimango spiazzata, cercando nel suo sguardo qualcosa che mi possa indicare che sta mentendo, che si sta semplicemente prendendo gioco di me, ma non trovo niente.
“Non la penserai così per sempre” la mia risposta non sembra preoccuparla.
“Lascia decidere a me” esclama appoggiando una mano sul mio petto, sentendo da sopra ai vestiti il cuore battere “Vivi Miray”

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