CAPITOLO 28

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L’arrivo in ospedale non è ovviamente dei più tranquilli. Parcheggio malamente l’auto nel parcheggio pubblico. Esco barcollante dalla macchina, raggiungendo le porte scorrevoli dell’enorme edificio cercando di non cadere rovinosamente sul cemento grigio. Non so cosa aspettarmi una volta dentro, l’unica cosa che mi fa pensare alle condizioni in cui si trovi Amanda, è vedere l’ambulanza ferma con le porte aperte. Nonostante non ci sia niente al suo interno, oltre alle attrezzature necessarie per salvare vite, il pavimento del veicolo è sporco di sangue, non piccole gocce che ti fanno pensare che la ferita sia lieve, ma pozze scure che mi fanno rabbrividire. Il defibrillatore è stato lasciato malamente in uno degli scaffali, anch’esso sporco di sangue…l’hanno riportata in vita mentre cercavano di raggiungere l’ospedale. Il suo cuore si è fermato, una sensazione che sicuramente hanno provato anche i suoi genitori, suo fratello e Amirah.
Salgo lentamente le scale dell’edificio possente, volendo prorogare il più possibile l’incontro con la famiglia distrutta. I gradini sembrano infiniti. Mi fermo sul secondo, guardando il mattone sottostante intagliato di crepe e sporco. È così che si sentono loro in questo momenti? Sporchi perché pensano di non essere riusciti a difendere Amanda, e in procinto di lasciarsi andare in mille pezzi?
Il rumore delle auto dietro di me mi fanno sobbalzare, ogni volta che qualcuno di loro accelera, facendo ruggire il motore.
Trovando il coraggio di entrare attraverso le porte scorrevoli, quelle stesse porte a cui sono sfortunatamente abituata, mi fermo nella sala principale. Ogni volta che da piccola vi entravo, venivo cacciata via malamente, non avendo l’assicurazione necessaria per i trattamenti. Solo dopo essermi sposata con Noah, le cose cambiarono. Nessuno mi guardava più dal basso verso l’alto, nessuno mi spingeva via…tutti mi accoglievano a braccia aperte, con riverenza e rispetto, cagione i soldi e la fama del mio ex marito. Questa volta entrarvi fu diverso. Vengo subito adocchiata dalla segretaria che mi rivolge un amplio sorriso, sicuramente riconoscendomi. Dopo averlo acquistato, tutti qui dentro mi riconoscono, che sia per il fatto che ormai sono la loro datrice di lavoro, o se mi conoscono già da prima, non me lo sono mai domandato; non mi è mai interessato sapere il motivo per cui le persone sanno chi sono.
Mi avvicino alla donna che continua a guardarmi da lontano, appoggiando una mano sul bancone.
“Amanda Aceveds, deve dirmi dove si trova in questo momento” dico senza troppi giri di parole. La segretaria mi osserva, abbassandosi gli occhiali.
“Non posso signora…per questioni di privacy, ecco” afferma spostando la tastiera del computer.
“Forse non ci siamo capite, la mia non è stata una richiesta” le sue mani smaltate riprendono la tastiera, facendo come richiesto, probabilmente intimidita dal mio sguardo e dal mio portamento. Muovendosi velocemente cerca il nome della giovane ragazza, girando il computer verso di me, guardandosi attorno di sottecchi.
“Non dica a nessuno che le ho dato queste informazioni, potrebbero licenziarmi” sussurra rigirando lo schermo verso di sé, schiarendosi la voce.
Mentre sono intenta ad allontanarmi, mi giro un’ultima volta verso di lei.
“Sono io quella che può licenziarti, nessun altro” affermo. Strabuzza gli occhi, rimanendo a bocca aperta, a quanto pare non aspettarselo; mi sbagliavo, nessuno mi conosce come la detentrice di questo ospedale, ma solo come la vedova impresaria.
Gli ascensori essendo pieni, gli evito immediatamente, per niente intenzionata a stare in ciò che pare un cubicolo stretto, appiccicata a tante altre persone. Prendo le scale, salendo gradino per gradino con fatica.
Non è mai stato un ambiente che ho gradito. Troppo bianco, troppi dottori che si muovono con addosso camici anch’essi bianchi, stessa cosa per le infermiere, un bianco che mi fa pensare al paradiso. L’unico colore presente oltre al bianco è il nero, un nero che invece mi riporta alla mente la morte.
Ad ogni piano, cercando dove si trova Amanda, mi imbatto in diversi pazienti. Chi soffre di problemi cardiovascolari, chi di reni, ma quelli che mi fanno stare peggio alla vista, li trovo nel reparto oncologico. Donne e uomini sciupati dalla malattia e dai farmaci…fantasmi che si aggirano per i corridoi aspettando la loro morte. Ciò che mi spezza maggiormente, è la vista dei bambini. Così piccoli e senza muscoli che nonostante i dolori, riescono a trovare la gioia in quel poco che hanno. Molti si accarezzano la testa convinti di trovarvi i propri capelli, rimanendo delusi quando non è così. Si fermano, osservano la mano e si imbronciano, dimenticandosene però subito dopo, venendo fortunatamente distratti da altro; meglio ignorare quello che sta succedendo. Piccoli nei loro vesti, non riuscendo a trovare abiti adatti per i loro corpi deteriorati.
Deglutisco a fatica, salendo un altro piano, accorgendomi troppo tardi di aver preso la direzione sbagliata; o forse era la mia vera intenzione, allontanarmi da Amanda e la sua famiglia. Questa volta scendo velocemente, consapevole di aver atteso troppo. È ora di affrontare la realtà.
Avviandomi verso la sala d’operazione, mi sembra di intravedere un uomo famigliare, che però si allontana frettolosamente, non dandomi la possibilità di riconoscerlo.
Finalmente al posto in cui si trovano, mi fermo ad osservare da lontano Amirah. Anche se a metri di distanza posso vedere la stanchezza che ha addosso. I suoi genitori non sono lì con lei, non so se sia perché non sono ancora arrivati o se abbiano preso Manuel con loro per calmarlo.
Rigida mi avvicino ad Amirah, che seduta su una delle sedie dell’ospedale con le mani tra i capelli, mi aspetta. Pronta ad un’altra discussione, altre accuse e altri scontri, stringo le mani a pugno, tossendo per rendere nota la mia presenza. Stringo le palpebre e la mandibola, aspettando che mi urli addosso, dicendomi che è colpa mia se sua sorella si trova sdraiata su quella sala operatoria …nello stesso ospedale che ho acquistato dopo il nostro piccolo battibecco.
“Stai bene? A te è successo qualcosa?” chiede con gli occhi rossi e i capelli scompigliati, alzandosi in piedi traballante. Si avvicina con passo lento, appoggiando le mani sulle mie spalle. Da vicino mi accorgo maggiormente delle borse sotto i suoi occhi. Il contorno nero che vi ha attorno, mettono in mostra i suoi occhi verdi, che questa volta non sono pieni di gioia oppure eccitazione…sono spenti e privi di vita.
“Si, sto bene, sono solo un po’ scossa” ammetto confusa dal suo comportamento. “Ero lì…non sono riuscita a salvarla” dico guardandola attentamente. Alla mia affermazione corruga la fronte, annuendo lentamente.
“Lo so…sei sicura di stare bene?” domanda cercando una conferma ulteriore, spostando gli occhi dal mio viso al mio corpo, come alla ricerca di qualche ferita.
“È colpa mia se è lì” capendo subito il motivo di tanto scetticismo da parte mia, scuote la testa in dissenso, prendendo le mie mani tra le sue. Mani fredde e pallide.
“Vuoi che ti dia la colpa di tutto?” domanda fissandomi attentamente. Nel suo sguardo non riesco a leggere niente, né se sia arrabbiata né se sia alla ricerca di conforto da parte mia.
“Si…me lo merito” affermo non riuscendo a reggere il suo sguardo penetrante. Cerco di allontanarmi, vergognandomi di me stessa, per il tentativo di trovare la conferma che non mi odi. Non la biasimerei se fosse così…sarebbe insensibile da parte mia dirle di non provare sentimenti negativi.
“No Miray, abbiamo smesso di darci la colpa a vicenda. Per quanto in questo momento senta il bisogno di incolpare qualcuno, non lo farò, non con te” si risiede, rifiutandosi di dire altro, muovendo nervosamente la gamba.
Il respiro mi si mozza, non aspettandomi così tanta comprensione da parte sua; siamo entrambe cambiate dal nostro primo incontro.
“Siediti” sussurra battendo la mano sulla sedia in plastica che ha accanto. Mi accomodo su di essa, decidendo di rimanere in silenzio, non volendo disturbarla, giocherellando con le dita ansiosamente. Capendo subito le mie intenzioni, appoggia la mano sulla mia coscia.
“Puoi chiedermi quello che vuoi” afferma continuando a guardare le porte che nascondono alla nostra vista la sala operatoria dove si trova sua sorella.
“Hanno detto qualcosa I medici?” chiedo mordendomi il labbro inferiore, sperando in niente di grave.
“No, solo che la dovevano operare d’urgenza appena arrivata, avendo subito danni agli organi interni dopo la collisione” ripete ciò che le è stato detto, asciugandosi le lacrime che vogliono scendere dagli occhi. “Non so se ce la farà…i medici non mi sembravano molto convinti quando sono usciti a parlarmi e Manuel quando l’ho visto non riusciva a far altro che tremare” Alla sua difficile ammissione, annuisco semplicemente, non sapendo cosa dirle o come consolarla, ma ci pensa lei a riempire il silenzio che si stava formando, cambiando argomento. “Si sa chi è stato?” domanda questa volta guardandomi. Se il suo sguardo poco fa era quello di una donna sconfitta, ora è quello di una donna che l’unica cosa che vuole è vendicarsi.
Ripensando alla conversazione avuta con i due poliziotti, sospiro, scuotendo la testa in dissenso. “L’auto che l’ha investita non si è fermata. Chiunque fosse…” mi fermo non sapendo se dirle quello che penso o no.
“Continua” ordina indurendo lo sguardo, prendendo un respiro profondo per prepararsi a quello che sto per dirle.
“Credo che chiunque l’abbia investita l’abbia premeditato…” dico, sentendo il calore salirmi sulle guance. “Eravamo sul marciapiede, lei a qualche metro di distanza da me e Manuel che ci eravamo fermati ad aspettarla quando è successo. Non so le dinamiche, l’unico ad avervi assistito è stato tuo fratello, io ero di spalle” teorizzo, accorgendomi che i suoi genitori e suo fratello stanno arrivando.
“Perché lo pensi? Non abbiamo mai fatto del male a nessuno” sto per risponderle, quando vengo bruscamente interrotta dalla madre di Amirah, che si scaglia contro di me. Gerald la trattiene per le braccia, impedendole di attaccarmi fisicamente, ma è l’unica cosa che può fare. I suoi insulti e le sue accuse, arrivano comunque alle mie orecchie.
Irrigidita mi alzo dalla sedia che produce un rumore forte, dandomi l’impressione di averla rotta, ma quando abbasso lo sguardo vedo che non è così.
“Guardami negli occhi quando ti parlo!” urla smettendo per il momento di riempirmi di parole pesanti. Alzo lentamente gli occhi, guardando come si dimena fra le braccia del marito, che addolorato, con le lacrime che non smettono di scendere e le labbra che tremano, non mi guarda. “Sei una disgrazia, ho detto più e più volte a mia figlia di starti lontana, sapevo che avresti portato il male nella nostra famiglia!” riprende con le sue accuse. “Vattene da qui! È colpa tua se mia figlia è lì dentro!” sbraita indicando le porte alle mie spalle.
Amirah appoggia la mano sulla parte bassa della mia schiena, spingendomi via. “Andiamo Miray…ha bisogno di tempo” mi sussurra all’orecchio. Passo accanto alla donna senza rispondere ad alcuna delle due parole, quando mi afferra l’avambraccio, conficcandovi le unghie. Una smorfia prende forma sul mio volto, ma non emetto alcun verso. Se questo può farla sentire meglio, che si sfoghi pure. Nel momento in cui ci stiamo allontanando, i medici e gli infermieri che si stavano prendendo cura di Amanda, escono togliendosi le mascherine e i guanti, scrivendo freneticamente su un blocchetto che hanno in mano.
“La famiglia della paziente Aceveds?” chiede uno di loro, guardandoci da lontano, non accorgendosi della tensione che fluttua fra di noi. Amirah torna in dietro, avvicinandosi con agitazione a lui.
“Come sta?” è la prima cosa che chiede, incrociando le mani insieme, sperando in buone notizie. Gerald, Mary e Manuel la seguono a ruota, tenendosi tutti a vicenda. Rimango a qualche entro di distanza, non volendo interferire più di quanto abbia già fatto.
“Per adesso bene. L’operazione è stata un successo, ma dovremmo comunque monitorata per qualche giorno. Non si sveglierà prima di domani, questo è meglio dirvelo subito” afferma il medico, salutandoli con un sorriso veloce, allontanandosi. Quando mi passa accanto riesco a sentire il fievole odore di sangue, facendomi storcere la bocca. La famiglia si stringe a sé, i componenti si consolano a vicenda, non facendo più caso a me. Volendo lasciarli questo momento per poter parlarsi, mi allontano dal reparto, percorrendo il corridoio fino al bar dell’ospedale. Ordino un caffè, che mi viene consegnato su un bicchiere di plastica. Il liquido brucia attraverso il suo contenitore, costringendomi ad appoggiarlo su uno dei tavolini non occupati. Sentendo i piedi farmi male, mi siedo pesantemente su l’unica sedia ancora libera, massaggiandomi i talloni, non potendo fare la stessa cosa con la pianta del piede coperta dalla scarpa. Finisco il caffè lentamente, non avendo la minima intenzione di tornare dagli altri, gustandomelo nonostante non sia uno dei migliori che abbia mai bevuto. Molti altri famigliari si trovano in questa sala grigia e cupa, la maggior parte con le spalle ricurve, i volti smunti e pallidi, a conferma delle ore buie che hanno dovuto passare dentro a queste quattro mura. Rimango seduta per mezz’ora su quella sedia, fino a quando Amirah non mi si avvicina con un debole sorriso.
“Come sta?” chiedo lasciandole la sedia su cui sono seduta, prendendone un’altra.
“Respira” risponde semplicemente, picchiettando le dita sul tavolo. “Cosa stavi dicendo poco fa?” chiede alzando gli occhi.
“Non qui…quando saremo sole ti dirò quello che penso” affermo guardandomi attorno con circospezione; non si è mai sicuri di chi si ha attorno. La donna che ho accanto si alza con forza, facendomi sobbalzare dallo spavento. Mi prende la mano, tirandomi su con lei, portandomi in un altro reparto. Con lo sguardo osserva le targhette che si trovano sulle porte, fermandosi di fronte alla A23. La apre, facendo entrare un po’ di luce nella stanza buia, permettendomi di intravedere Amanda sdraiata sul letto. Le lenzuola bianche si confondono con la sua pelle, non più rosea e viva come una volta. Alla vista di un tubo che l’aiuta a respirare, sposto lo sguardo, deglutendo a fatica. Lasciando che Amirah si avvicini alla sorella, mi avvio verso la finestra, aprendo le tapparelle per permettere ad un po’ di luce di filtrare.
“I tuoi genitori?” chiedo mentre il sole inizia piano piano a farsi largo nella stanza.
“Sono tornati a casa con Manuel…non riusciva a stare qui” ammette sedendosi accanto alla sorella.
Un rumore incessante, bip bip, riempie l’atmosfera cupa e triste. Per la prima volta nella mia vita, detesto il rumore incessante che riecheggia nelle mie orecchie, preferendo il silenzio.
Mi avvicino a mia volta ad Amanda, accorgendomi delle condizioni delle sue mani. Da quando è accaduto l’incidente sono rimaste così, sporche e rosse. Quando Manuel si è accovacciato accanto per assicurarsi delle sue condizioni, la prima cosa di cui mi accorsi furono le sue mani…
Corrugo la fronte non volendo continuare a vederla ridotta in quel modo, allontanandomi nuovamente da lei. Prendo della carta dal bagno connesso alla stanza, bagnandola con un po’ di acqua. Torno da Amirah che tiene ancora la mano della sorella fra le mani, spostando lo sguardo dal suo volto ai macchinari che segnano le sue condizioni. Mi siedo dall’altro lato del letto, prendendo la mano di Amanda, pulendole le unghie sporche di sangue ormai secco, non riesco a pulirle come vorrei, ma almeno è meglio di poco fa. Amirah mi allunga la mano, facendomi segno di passarle la carta che ho appena usato. In silenzio fa la stessa cosa, curandosi di non farle del male, pulendole meglio che può le mani.
“Qui possiamo parlare. Mia sorella sicuramente non può sentire quello che ci diciamo” afferma con una freddezza mai vista prima in lei. Impassibile aspetta che dica qualcosa, aspettando qualsiasi informazione che possa aiutarla a trovare il colpevole.
“Mi fido Amirah…” sussurro guardandola attentamente “Stamattina ho ricevuto le prove necessarie per incastrare il signor Barton-“
“Questo cosa c’entra con quello che è successo a mia sorella?” chiede interrompendomi bruscamente.
“Fammi finire. Forse mi sto sbagliando, ma in qualche modo ha scoperto che stavo preparando l’accusa nei suoi confronti. Il modo migliore per rallentare il tutto? Colpire qualcuno vicino a me…sfortunatamente per lui non c’è nessuno, non ho una famiglia a cui può fare del male”
“È con questo?”
“Penso abbia cercato di farmi fuori, e Amanda è stata messa in mezzo” affermo osservando la sua reazione. Si rabbuia, abbasso lo sguardo sulla sua mano che stringe quella della sorella. “Non ne ho le prove…ma forse possiamo chiedere a Manuel per capire chi di noi era l’obiettivo” sussurro non volendo farla stare più male di quanto non lo stia già.
“Che cosa hai trovato su di lui?” chiede lasciando un bacio sulla fronte di Amanda, alzandosi in piedi, seguita a ruota da me.
“Corruzione, collaborazione con mafiosi e criminali” confesso con voce bassa, sentendo addosso una sensazione strana; forse sto sbagliando a dirle tutto questo.
Non ho il tempo di pensare più a lungo alla mia scelta che la porta della stanza viene riaperta, mostrando Gerlad, Mary e un Manuel pulito, privo di sangue sui vestiti.
“È meglio se vado” mormoro abbassando lo sguardo.
“Mamma…” la avverte la figlia, permettendomi così di uscire senza essere aggredita nuovamente. Vengo fermata per un braccio e avvicinata a chi mi impedisce di proseguire.
“Devi trovare chi è stato” riconosco la voce del giovane ragazzo, che sussurra quelle parole con un dolore immenso nel corpo. Annuisco semplicemente come risposta, uscendo definitivamente dalla stanza mentre lui raggiunge la sua famiglia che si trova tutta attorno alla sorella ospedalizzata.
Uscendo dall’ospedale chiamo Melissa, riferendole quello che è successo. Anche lei è sicuramente preoccupata, non avendomi sentita per almeno sei ore di seguito.
“Miray! Dove sei finita?” chiede con preoccupazione.
“C’è stato un’incidente…hanno investito Amanda” le faccio sapere, entrando in auto. “Sto tornando in azienda, aspettami in ufficio” ordino senza darle il tempo di dire niente o reagire alla notizia, volendo provare a chiudere la questione una volta per tutte. Prima mi libero di lui, meglio sarà per tutti noi.
“Che cosa è successo?” è la prima cosa che chiede Melissa non appena metto piede fuori dall’ascensore.
“Kayden è qui?” domando a mia volta controllando se sia nel suo ufficio, non trovandolo dove solitamente è seduto a firmare fogli su fogli.
“No, è uscito da un po’. L’ho chiamato subito dopo averti parlato. Sta arrivando” mi fa sapere seguendomi in ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. “Quindi?” chiede nuovamente con le mani ai fianchi, girando per la stanza nervosamente.
“Dobbiamo muoverci, ed in fretta”

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