CAPITOLO 27

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"Noi andiamo a dormire Miray, hai bisogno di qualcosa?" chiede in un sussurro Arisa, già pronta per andare a letto. La stanchezza inizia a risalire sui loro corpi non abituati a partecipare a feste di quel calibro. La casa buia, come mette pace a me, lo fa anche a loro, cullandoli verso un sonno senza sogni. La notte che ormai è scesa su di noi mi fa sospirare leggera, sfregando gli occhi appesantiti.
"No, andate pure, io resto ancora un po' sveglia" anche se titubante, si allontana dirigendosi verso la sua stanza, seguita subito dopo da Jeffrey che con le spalle ricurve, aspetta solo di sdraiarsi.
Mi siedo sul divano con un sbuffo, divaricando le gambe e lasciando andare la testa all'indietro. Nel silenzio più totale, una delle ante aperte sbatte avanti indietro creando un rumore fastidioso, ma comunque un rumore che decido di non fermare. La lascio aperta, seguendo il ritmo dei suoi movimenti. Il vento soffia sibilante al di fuori, come per spaventare qualsiasi persona provi ad avvicinarsi, e lo ha sempre fatto, nessuno al di fuori di Me, Arisa, Jeffrey, Diana e Amirah ha mai trovato il coraggio di bussare alla porta. Forse perché sanno che è casa mia, o forse perché sono spaventati dall'idea di vedere cosa c'è dentro a queste mura, non hanno mai varcato la soglia del grande cancello che separa io giardino dalla strada asfaltata. Non ho mai organizzato una festa qui, nonostante sia grande abbastanza da ospitare all'incirca duecento persone, ma l'idea di permettere a degli estranei di invadere i miei spazi personali, l'unico luogo in cui posso essere me stessa, non mi alletta affatto. Cammino fino alla cucina annoiata, priva di un briciolo di sonno, aprendo uno dei cassetti e prendendo uno snack veloce; piuttosto che stare ferma a guardare il nulla, preferisco mettere fra i denti qualcosa da masticare per passare il tempo. La noia gioca brutti scherzi. Nel chiudere il cassetto uso più forza del necessario, producendo un rumore che rimbomba nel piano vuoto. Lo riapro e chiudo un'altra volta, e poi un'altra e un'altra ancora, sentendo la tensione sciogliersi lentamente ad ogni rumore che risuona. Apro la confezione che avvolge il cibo, soffermandomi a sentire il suono che produce la plastica. La accartoccio una, due, tre e quattro volte, rimanendo incantata nei miei stessi movimenti, per poi buttarlo.
Tornando in salotto controllo l'ora sull'orologio appeso al muro mentre addento la barretta, accorgendomi di quanto sia davvero tardi. Le lancette segnano le due e mezza, mezz'ora prima delle tre, l'ora del diavolo. Il telefono squilla in una delle stanze del primo piano, facendomi sobbalzare. Con i piedi scalzi che sbattono sul pavimento, mi avvio alla sua ricerca. Giro quasi tutte le stanze, non riuscendo a trovarlo prima che si spenga. Non sentendo più lo squillo, mi fermo in mezzo al corridoio aspettando che chiunque sia stato a chiamarmi, lo rifaccia. La musichetta parte nuovamente, questa volta più forte di prima. Seguo il suono, arrivando in una delle stanze completamente buie. La suoneria proviene dal cappotto che avevo addosso e che adesso è per terra, lasciato al suo destino. Mi accorgo del capo solo perché quasi scivolo appoggiandovi il piede scalzo sopra, nel tentativo di entrare nella camera. Accovacciata, cerco a tentoni le tasche per trovare il telefono, venendo a contatto con l'aggeggio freddo dopo due tasche vuote. L'unica luce ad illuminare la piccola stanza è quella proveniente dal display acceso, che indica due chiamate perse da parte di Amirah. Confusa inclino il capo, osservando il telefono illuminarsi un'altra volta con il nome della donna dagli occhi verdi. Tornando verso il divano cercando di non inciampare e di farmi male, rispondo.
"È successo qualcosa?" è la prima cosa che chiedo, controllando nuovamente l'ora sull'orologio appeso, non capendo il motivo per cui mai mi dovrebbe chiamare a quest'ora se non per un'emergenza.
"Sono fuori"
"A quest'ora? Che cosa pensi di fare Amirah, sei sola?" chiedo preoccupata, avviandomi su per le scale, intenta a vestirmi per raggiungerla ovunque lei sia. Sono alla porta della mia camera da letto, quando la frase che pronuncia, mi porta a sgranare gli occhi.
"No no, sono fuori casa tua, apri" risponde facendomi fermare sui primi gradini. Torno indietro ancora più confusa di prima, aprendo la porta di casa, trovandomela davanti.
"Cosa ci fai qui?"
Senza rispondere entra facendosi spazio fra la mia mano e la porta. Si toglie il cappotto appoggiandolo sul divano, come se fosse a casa sua; alla faccia del vento che pensava di spaventare qualcuno. Inizia a muoversi avanti e indietro con le mani ai fianchi, torturandosi il labbro inferiore. È vestita come alla festa, un vestito nero attillato che mette in risalto le sue forme, sorretto da due spalline sottili che lasciano poco all'immaginazione, spalle coperte dai capelli corvini sciolti e quegli occhi, che in questo momento sono più verdi che mai...famelici.
In contrasto ho addosso una maglietta bianca e dei pantaloncini, che mettono in risalto lo stato vulnerabile in cui mi trovo; piccola e indifesa di fronte al suo sguardo predatorio.
Con passo veloce, sbattendo i tacchi con fermezza sul pavimento spoglio, si avvicina pericolosamente, senza però toccarmi; una tentatrice. Indietreggio immediatamente, senza però via di scampo.
"Che pensi di fare?" rimane nuovamente in silenzio, studiando ogni mia minima espressione. Torreggia su di me di qualche centimetro grazie ai tacchi, portandomi a stringere la mandibola; non apprezzo affatto il modo in cui mi sta guardando. "Non illuderti Amirah, non avrai mai la meglio su di me" sussurro osservando come le sue labbra incominciano piano piano ad alzarsi in un sorriso sghembo.
"Forse questa volta si..." risponde finalmente, unendo il suo corpo al mio. Le mani ferme ai fianchi, toccandomi solo con il petto e le cosce, una delle quali scoperta. Pelle contro pelle, respiro mischiato ad un altro respiro.
"Ancora?" chiedo non appena appoggia le mani sul muro alle mie spalle.
"Stai zitta" mormora, infilando la gamba scoperta tra le mie.
"È così che vuoi continuare a risolvere?"
"Puoi sposarti, fere finta di stare insieme a Kayden davanti ai giornalisti, non mi importa. Se questo è quello che devo accettare per poter stare con te...allora lo accetto, accetto tutto finché so di essere l'unica a poterti toccare e sfiorare, baciare e amare. Solo io Miray, nessun altro" lo sguardo pieno di desidero e...amore, mi fanno tremare. Lo vedo nei suoi occhi, nel modo in cui il suo corpo trema, che freme dalla voglia di toccarmi, di farmi sua senza trattenersi, senza avere paura di vedermi scappare via da lei, dalle sue labbra e dal suo cuore ormai non più chiuso con un lucchetto.
"Lo sai che continuerò a mentirti su molte cose...perché ti fai questo?" sussurro ad un centimetro dalle sue labbra bagnate. La voglio baciare, ma tocca a lei decidere se vuole farsi del male oppure tirarsi indietro e salvarsi. Devo lasciarglielo fare? Lascio che si rovini la vita per me?
Ponendomi quelle domande giro il capo nell'esatto momento in cui si avvicina per baciarmi, facendole trovare la mia guancia accaldata. Con un dito mi accarezza il collo, seguendo il movimento della mia gola quando deglutisco.
"Io ho deciso da tempo quello che voglio, tu?" domanda sensualmente spostando la maglietta, scoprendo la cicatrice.
"Non sai quello che vuoi Amirah...non ti rendi conto del male che ti stai facendo"
"Io ho deciso, tu?" pone la stessa domanda ignorandomi completamente, sfiorando la ferita cicatrizzata da anni, mentre la osserva pensierosa. "Quindi?" sussurra appoggiando le labbra sulla mia clavicola, rimarginando quell'invisibile ferita che mi porto dietro da anni.
"Sin dall'inizio" rispondo cedendo davanti alla sua insistenza, chiudendo gli occhi, lasciandole il tempo di sentire con le sue stesse mani e labbra la profondità della ferita che mi è stata inflitta.
"Ti chiedo scusa Miray...perdonami" mormora cingendomi i fianchi con le sue braccia, abbracciandomi. Appoggia la guancia sul mio petto, continuando a scusarsi. Insofferente non si ferma, dando sfogo al suo pentimento. "Perdonami"
Rannicchiata fra le mie braccia mugola sofferente chiedendo perdono a me per sentirsi meglio con sé stessa, chiede perdono per qualcosa che io non posso perdonarle.
"Shh, basta Amirah" sussurro alzandole il capo con due mani che le sostengono il volto. La bacio lentamente, assaporando le sue labbra rosee. "È l'unica cosa che posso darti, chiuse tra queste mura" affermo staccandomi momentaneamente, per ricordarle che al di fuori di qui, lei per me non può essere niente più che una semplice socia in affari.
"Mi basta" risponde affannata "Se posso averti così ogni volta che voglio, mi basta" ammette senza paura, riunendo le nostre bocche. La prendo per una mano, lasciandole un altro bacio veloce sulle labbra, trascinandola su per le scale, richiudendola nella mia stanza.
"Non hai intenzione di farmi uscire?" chiede provocatoria, togliendosi i tacchi e andandosi a sedere sul letto senza mai distogliere lo sguardo.
"Cambi umore in fretta. Fino a poco fa mi stavi supplicando di perdonarti e ora-"
"Ora sarò io a farti supplicare...fino a quando non otterrò ciò che voglio" sussurra abbassando le spalline. Il vestito scende fino a scoprire il seno, che era coperto per tutta la serata solo dal sottile indumento e che ora, in pochi secondi, si trova ai suoi piedi. "Fino a quando urlerai"
"È una promessa?" mormoro guardandola mentre si alza, avvicinandosi a me, ancora ferma accanto alla porta. A un passo dal mio corpo, agguanta la maglietta tirandomi verso di lei. Mi lecco le labbra osservando il suo seno muoversi ad ogni suo passo. Mi sfila con fervore l'indumento di dosso, questa volta avvicinandomi a sé dai pantaloncini, togliendomi poco dopo anche quelli.
"Una che ho intenzione di mantenere" risponde spingendomi sul letto, salendo a cavalcioni sulle mie cosce. Mi bacia con passione, impossessandosi delle mie labbra e della mia lingua.
"Ho smesso di scappare da te"
Quella notte, fra le sue braccia, urlai per la prima volta. Lasciai che i versi uscissero dalla mia bocca come un fiume in piena, finalmente libera di lasciarmi andare completamente. Fu diverso dalle altre volte. Mi toccò delicatamente, brividi sul corpo causati non solo dall'intenso orgasmo, ma anche dalle troppe emozioni che ormai sono parte di me. Venni apprezzata come non mai, amata come nessuno era riuscito a fare fino ad ora. La prima di tante notti insieme.
Non posso più tornare indietro, non dopo aver scoperto cosa significhi essere importante per qualcuno.
***
"Signora, è qui" esclama Melissa dalla porta dell'ufficio, facendo segno alla persona dall'altra parte di entrare.
"Hai qualcosa?" chiedo mentre si siede. L'investigatore privato annuisce, tirando fuori dalla borsa che ha sulle spalle, dei documenti raccolti in una cartella. Foto e prove di lavori illeciti che Joshua ha compiuto fino ad oggi. Incontri con politici e forse dell'ordine corrotti, soldi rubati, aziende portate al fallimento intenzionalmente e tanto altro.
"Come mi ha chiesto, non ho seguito o fatto foto alle persone con cui era. Mi sono concentrato solo su di lui" professionale come sempre, mi informa su quello che ha fatto, stringendomi la mano dopo quelle parole, uscendo dall'ufficio di nascosto, evitando di farsi vedere da sguardi sospetti.
Guardo le foto scattate che inquadrano Joshua mentre scambia dei mazzetti di soldi con qualcuno. Giro la foto trovandovi dietro un nome con altre scritte; Milko Roost, poliziotto accusato più e più volte di corruzione, licenziato da due anni.
Un'altra foto con sempre Joshua che questa volta stringe la mano, con un sorriso sornione, ad un altro signore; Richard Lubert, politico sospettato di collaborare con la mafia.
Un'altra foto ancora in cui entra in un capannone. Un'altra dove al suo interno è intento a controllare un carico sigillato.
Raccolgo tutte le foto, inserendole nella busta da dove le ho tirate fuori, uscendo dall'ufficio a chiamare Melissa.
"Di cosa ha bisogno?" chiede la donna seduta dietro alla sua scrivania.
"Devi chiamare il mio avvocato. Abbiamo le prove di cui avevamo bisogno" dico porgendole le foto imbustate.
"Ora signora? È saggio farlo in questo momento?"
"Abbiamo aspettato a lungo...è arrivato il momento di liberarci di lui. Non possiamo provare che sia stato lui a minacciarmi, ma almeno rimarrà dietro alle sbarre per qualche anno" esclamo ripensando alla lettera, al coltello e alla pallottola.
"E i suoi complici? Se lo accusiamo ora, loro si nasconderanno" sussurra guardandosi attorno furtivamente.
"Un problema alla volta Melissa" la diretta interessata annuisce riluttante, guardando con cautela una delle prime foto.
"Forse questa è la volta buona" sussurra mordendosi il labbro inferiore.
Ciò di cui nessuna di noi di si accorse era la presenza di un'altra persona nascosta nell'ombra. Lo stesso investigatore privato ingaggiato per fare da esca.
Lasciando quelle foto nelle mani di Melissa, controllo l'ora accorgendomi di essere in ritardo per l'incontro con Manuel e Amanda. La sera del compleanno dell'unico figlio della famiglia Aceveds, entrambi mi invitarono ad uscire con loro così da poterci conoscere meglio. All'inizio non fui per niente propensa ad accettare, ma dopo che ieri le cose con Amirah finirono per prendere una piega diversa, mi autoconvinsi di doverglielo. Per quanto siano più piccoli della sorella maggiore, l'istinto di prendersi cura di lei è sempre presente, e visto che non sono una donna che si tira indietro di fronte a niente, e di certo non ad un interrogatorio fatto da due giovani, accettai.
Arrivai al bar scelto dai due, trovandoli seduti intenti a scherzare tra di loro. Il mio arrivo è segnalato dal motore dell'auto e dal campanello che suona non appena apro le porte. Manuel e Amanda si voltano verso di me, salutandomi con un cenno della mano e un sorriso.
"Vuoi prendere qualcosa?" alla domanda della giovane ragazza annuisco, lasciando che sia lei a prendere qualcosa per me, a detta sua quello che sceglierei io non sarebbe mai buono quanto quello che sceglierebbe lei.
"Quando tornate a Miami?" I due si rabbuiano, storcendo la bocca per niente contenti all'idea di dover lasciare nuovamente la sorella sola a New York.
"Tra qualche giorno. Siamo venuti qui per festeggiare il suo compleanno – indica Manuel – per poi tornare a casa..."
"Ci rivedremo per il tuo compleanno, no?" cerco di rallegrarli, ma senza troppo successo.
"Si, ma è tra quattro mesi" sussurra malinconica, giocherellando con la tazza vuota. Rimaniamo in silenzio tutti e tre, fino a quando Manuel non prende parola.
"Comunque, tralasciando questo, come vanno le cose con Amirah" cambia argomento, sorseggiando la sua bevanda e pulendosi la bocca poco dopo.
"Bene. Decisamente meglio di prima" ammetto ai due che mi osservano attenti.
"Nostro padre si fida di te...più di tutti noi altri" confessano "Non deluderlo, per favore" supplicano sommessamente, guardandosi a vicenda, come per comunicare tra di loro. Rimango interdetta davanti alla loro richiesta insolita. Solitamente in questo tipo di discussioni si chiede sempre di non ferire la persona coinvolta nella relazione, non qualcuno di esterno.
"Farò del mio meglio" rispondo, non pensando al motivo di tale necessità.
Finiamo di bere e mangiare, uscendo dal bar dopo aver salutato i camerieri che ci hanno serviti.
"Ho voglia di gelato" afferma Amanda, accarezzandosi lo stomaco per sottolineare la sua improvvisa voglia. Manuel la guarda con un sopracciglio sollevato, giudicandola con lo sguardo. La ragazza alza le spalle, fregandosene del fratello, annuendo convinta delle sue parole. Volendo accontentarla, cerco sul telefono una gelateria nei dintorni, trovandone uno ad un chilometri di distanza. Camminiamo per qualche minuto nel quartiere, mentre i due adolescenti, nel mentre giungiamo a destinazione, mi raccontano quello che fanno quando sono a Miami, tra uscite con amici, studio e famiglia.
Sono intenta ad ascoltare Manuel che non smette di parlare degli aneddoti della sua vita, di quando Amirah viveva ancora con lui, quando all'improvviso sento un tonfo e un rumore di freni che stridono sull'asfalto a tratti ghiacciato. Accadde tutto troppo in fretta. Il sorriso e l'entusiasmo di Manuel si spense subito, il suo sguardo mutò da uno pieno di allegria a uno dolorante e sconvolto, mentre guarda cosa è successo alle mie spalle. Non faccio in tempo a voltarmi che un verso strozzato, carico di sofferenza lascia le labbra del giovane ragazzo, che si lancia verso la strada superandomi, non riuscendo ad essere abbastanza reattiva da afferrarlo. Mi giro con il cuore in gola, aspettandomi già un corpo per terra sanguinante. Ciò che mi trovo davanti mi fa quasi vomitare. Una sagoma accovacciata sopra un corpo scaraventato a qualche metro di distanza da dove ci trovavamo. Una mano insanguinata che si intravede da sotto alle gambe piegate di Manuel. Mi avvicino con cautela, mentre tutti gli altri attorno si muovono frenetici, chi chiamando un'ambulanza, chi correndo via non volendo assistere più a lungo alla scena e chi come me si tiene lo stomaco e la bocca, eccessivamente affetti dalla scena che ci si presenta.
"Amanda!" urla il giovane ragazzo. Prima che possa afferrare le spalle della sorella per scuoterla in un vano tentativo di svegliarla, lo fermo, tirandolo via da lei con due mani sul suo petto, mentre si appoggia su di me con la schiena.
"Fermo, rischi di peggiorare la situazione!" spostando il giovane ragazzo, intravedo le ferite che segnano il corpo di sua sorella. Ricoperta di sangue da testa a piedi, vestiti strappati, tagli profondi e sguardo vitreo. È inerme sull'asfalto, neanche un minimo movimento ad indicare che sia ancora viva.
"Il battito...controlla il battito e basta" dico lasciandolo andare. Anche se ancora pienamente scosso, si avvicina gattonando disperatamente alla sorella, allungando una mano verso il suo collo. Le sue dita tremano visibilmente mentre si appoggiano sulla sua pelle sporca. La sua schiena si alza e abbassa sempre più velocemente. All'improvviso indietreggia, afferrandomi gli avambracci con fermezza, conficcando le unghie corte sulla mia pelle.
"C'è...Miray c'è, fai qualcosa!" esclama scuotendomi con forza, per risvegliarmi dallo stato di shock in cui mi trovo.
"A-arrivano"
Il rumore delle sirene dell'ambulanza in lontananza che si sta avvicinando, diventano sempre più incessanti ad ogni metro che avanzano verso di noi. I minuti che passano fino all'arrivo dei soccorsi sembrano infiniti, ore e ore di dannata attesa. Niente di tutto quello che accade in quei attimi, fra l'arrivo dell'ambulanza fino alla loro ripartenza, mi rimangono impresse. Movimenti precisi e ben coordinati che cercano di salvare la vita della ragazza ormai quasi persa fra le nostre braccia. Manuel sale subito dopo che i soccorsi hanno caricato Amanda sul veicolo, lasciandomi indietro a parlare con le forze dell'ordine arrivati al luogo dell'incidente.
"Sa dirci cosa è successo?" chiede il poliziotto con un taccuino in mano.
"Un'auto...da lontano e poi l'incidente" dico guardandomi attorno, cercando il veicolo che ha causato quelle ferite viste poco fa, ad Amanda. "Non c'è..."
"Di cosa state parlando?" domanda l'uomo in divisa, guardandomi confusa.
"L'auto che l'ha investita, non si è fermata" dico camminando in avanti, pensando di poter riuscire a trovare il colpevole. Vengo fermata da un altro poliziotto; Jhonas.
"Non credere a quel che dice, è abituata a mentire" borbotta a bassa voce al suo collega, girandomi attorno come un avvoltoio. Evito di rispondergli, riportando lo sguardo sul punto dove è avvenuto l'incidente. Una pozza di sangue sporca l'asfalto nero, rendendolo lucido ogni qualvolta i raggi del sole lo colpiscono.
"Avete intenzione di fare qualcosa?" chiedo stringendo la mandibola talmente forte, da sentire i denti digrignare l'uno con l'altro.
"Non avendo lei visto niente, la sua testimonianza non ci è di grande aiuto...provvederemo a risolvere il caso chiedendo agli altri presenti e controllando le telecamere" afferma il poliziotto di poco fa, allontanandosi con Joshua che senza spostare lo sguardo dal mio, appoggia una mano sulla fondina che sostiene la pistola. Non appena si voltano per tenere lontano le persone che aleggiano ancora attorno alla ormai scena del crimine, ritorno sui miei passi, avviandomi in fretta verso l'auto lasciata davanti al bar, correndo a perdifiato. Mentre entro in macchina cerco il contatto di Amirah, chiamandolo al telefono. Squilla due, tre volte, ma non risponde, probabilmente in una riunione, oppure già diretta verso l'ospedale. Sperando che Manuel l'abbia avvertita, cerco stavolta il contatto di Gerald. Il padre risponde immediatamente, troppo tranquillo per una persona che dovrebbe avere appena scoperto che la figlia è rimasta vittima di un incidente stradale.
"Gerald..." pronuncio il suo nome con difficoltà, sentendo la gola chiudersi dall'ansia eccessiva che provo. Come posso comunicare ad un genitore che la figlia è in ospedale senza fargli del male? Impossibile.
"Miray! Come sta andando con Manuel e Amanda?" chiede euforico, battendo qualcosa dall'altra parte della cornetta, provocando un suono simile ad un martello che colpisce un chiodo.
"Mi dispiace" sussurro seduta sul sedile nero, con le spalle ricurve. Il rumore cessa immediatamente, lasciando spazio al silenzio accompagnato dal respiro dell'uomo. "Non so come sia successo, mi dispiace" continuo a sussurrare, scuotendo la testa confusa.
"Di cosa stai parlando Miray? Dove sono Manuel e Amanda?" domanda calmo, l'unico segno della sua agitazione è il respiro accelerato.
"In ospedale...un'auto ha investito Amanda" dico deglutendo con forza, tanto da farmi del male. Aspetto che dica qualcosa con il cuore in gola, aspettando urla e insulti da parte sua, ma la telefonata si spegne improvvisamente, portandomi a controllare lo schermo del telefono per assicurarmi che sia così. Cercando di calmare il cuore che batte frenetico, respiro profondamente chiudendo momentaneamente gli occhi, strofinando le palpebre pensando alla reazione di Amirah una volta faccia a faccia con lei. Devo prepararmi ad affrontare una famiglia distrutta genitori pronti ad accusare chiunque per ciò che è accaduto alla figlia, ed una sorella che non perdonerà nessuno che ritiene colpevole.

Who wins? (girlxgirl) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora