CAPITOLO 24

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Trigger warning

Il tempo di cui ebbe bisogno per trovare il coraggio di affrontare l’argomento, fu più lungo del previsto.
Ci siamo solo viste di sfuggita in azienda, io dall’uscio della porta dell’ufficio, e lei che passava a Melissa i documenti da recapitare poi a me. Un gioco infinito di sguardi e gesti incomprensibili da parte sua. Prima si limitava a guardarmi senza azzardare ad un cenno di sorriso, poi lasciava spazio ad un movimento delle labbra che pareva un sorriso, uno di quelli che si rivolgono a persone che non si conoscono, ma di cui si vuole scoprire tutto.
Neanche al più empio degli uomini si ricorre ad un comportamento del genere, neanche a chi è esecrato da tutti si toglie la possibilità di essere felici, ma lei aveva deciso che me lo meritavo.
Dopo un po’ di giorni che Amirah non mi rivolgeva la parola, iniziai a pensare che si stesse divertendo a salire fino all’ultimo piano, lasciare quello che doveva lasciare a Melissa, e guardarmi negli occhi senza dire niente. Una tortura infinita che sembrava non finire. Le sue visite passarono dall’essere minime e inesistenti, al trovarmela quasi ogni ora fuori a chiacchierare con la mia segretaria come se niente fosse successo.
Fui tentata più di una volta ad avvicinarmi e a dirle la verità, quella stessa verità che non voleva assolutamente venire a sapere, ma venivo ogni volta fermata da Kayden che si era ormai trasferito nell’ufficio accanto al mio; non tanto per me ma quanto per Melissa seduta fuori a fare il suo lavoro. Vedendola sempre lì, iniziai anche a pensare che fosse infastidita dalla continua presenza del giovane Forbes, e che venisse su solo per assicurarsi che tra di noi non succedesse niente. E anche in quei momenti, fui tentata di avvicinarmi a dirle che Kayden voleva solo una donna presente in quel piano, e non eravamo di certo io e lei, ma come se l’uomo potesse intuire le mie intenzioni, mi distraeva con battute ridicole e penose, di cui però non potevo fare a meno di sorridere, e questo sembrava infastidire la donna dagli occhi verdi ancora di più.
I giorni continuarono a passare così, tanto che ad un certo punto arrivai ad ignorarla completamente; se voleva giocare in questo modo, avrei fatto di peggio, l’avrei istigata fino a quando non avrebbe ceduto.
A pagarne le conseguenze non fummo solo io e lei, ma anche Kayden, che si trovò in mezzo alla nostra rivalità e Melissa, che per quanto volesse portarlo via ogni volta che mi appoggiavo in maniera esagerata sul suo braccio o petto, rimaneva in silenzio mordendosi il labbro, subendosi i commenti di Amirah, senza che potesse dire niente di rimando.
L’uomo vittima di tutto questo, rimaneva fermo immobile, e come un pesce fuor d’acqua, poiché non sapeva come reagire ai miei comportamenti. Gli fu tutto più chiaro solo quando gli spiegai quello che stavo cercando di fare, stando al gioco; non smettendo mai di rassicurare Melissa con occhiolini che ormai andavano da una parte all’altra del corridoio, talmente tante volte gli aveva fatti.
Il primo segno di cedimento da parte di Amirah avvenne un pomeriggio, quando troppo stanca dalle continue riunioni, abbracciai Kayden, appoggiando il capo sul suo petto, chiudendo gli occhi. Il povero uomo, intuendo quanto fossi esausta, mi abbracciò a sua volta, appoggiando la guancia sul mio capo dopo aver lasciato un bacio tra i miei capelli. In quel momento lo sguardo della donna tramutò. I suoi occhi divennero di un verde più acceso, il suo volto si chiuse in una smorfia e le mani si chiusero a pugno lungo i suoi fianchi.
“È possibile che proprio quando non sto appositamente cercando di farla ingelosire, succede il contrario?” fu quello che domandai ancora tra le sue braccia, troppo comoda per spostarmi. “Non dirmi che anche Melissa ha la sua stessa espressione…” la risata di Kayden rimbombò nell’ufficio, uscendo dalla porta aperta e raggiungendo le due donne fuori. “Peggiori solo la situazione” esclamai non riuscendo a frenare la risata, trovando tutta questa situazione divertente.
“Credo che stasera mi farà dormire direttamente fuori” sussurrò al mio orecchio per non farsi sentire.
“Continui a peggiorare”
I gironi successivi, furono un susseguirsi di episodi del genere. Melissa fortunatamente iniziò a capire la dinamica della nostra amicizia, limitandosi a sorridere e a scuotere la testa ogni volta che ci vedeva ridere e scherzare. Amirah invece, sembrava innervosirsi ogni giorno di più, fino a quando non si decise ad affrontarmi.
Ero seduta nel mio ufficio, quel giorno sola senza Kayden, che era fuori.
La porta dell’ufficio venne spalancata con veemenza, facendomi sobbalzare dallo spavento.
“Che cosa pensi di fare?” chiesi ormai al limite della pazienza. Continuava a mancarmi di rispetto, senza degnarsi di chiedere scusa quando sbagliava.
“Tu cosa pensi di star facendo Miray?! Sempre attaccata a quel Forbes”
“Da quando ti interessa cosa faccio e cosa no? Mi ignori ormai da quasi due settimane!” la frustrazione imbottigliata in questi giorni, invece di implodere come dubitavo sarebbe successo, venne a galla senza pietà. “Non hai il diritto di venire nel mio ufficio a chiedere spiegazioni”
“Invece eccome se posso! Solo perché ho chiesto un po’ di spazio, non vuol dire che puoi andare in giro a scopare chi ti pare”
“Attenta a quello che hai intenzione di dire d’ora in poi Amirah… dosa bene le tue parole se non sai di cosa stai parlando”
Piene le tasche delle sue infondate accuse, mi avvicino pericolosamente al suo volto arrossato. “Ho sopportato abbastanza a lungo il tuo comportamento insolente, è vero che tra di noi c’è qualcosa, ma non ti permetto di venire nella mia azienda ad accusarmi in questa maniera!” sibilo troppo infuriata con lei. “Quindi se non hai nient’altro da aggiungere, e spero per il tuo bene che sia così, puoi pure andartene”
Forse perché si accorge di quanto sia seria, o forse perché non vuole peggiorare la situazione, indietreggia senza dire altro, allontanandosi con passo pesante.
“È per la cronaca, Kayden ha già una relazione con una donna stupenda” le urlo dietro, nel esatto momento in cui lui e Melissa escono dall’ascensore.
“Signorina Aceveds…” la saluta cordialmente l’uomo in questione.
“Non si merita la tua gentilezza” sussurro a denti stretti, sedendomi sulla sedia. Melissa si chiude la porta alle spalle, andando a sedersi accanto a Kayden sul divano. “Si è permessa di accusarmi di averla tradita…pazzia, assoluta pazzia” esclamo spostandomi le ciocche di capelli dal viso.
“Guarda la situazione dal suo punto di vista…eravate molto vicini in questi giorni” informa delicatamente l’altra donna presente in ufficio, facendomi sbuffare.
“Non mi sembra tu abbia accusato Kayden di una cosa del genere”
“Solo perché conosco entrambi e perché so che lui è il mio ragazzo” dice con fermezza “Devi ricordarti che lei non sa di noi due, pensa che lui sia semplicemente un tuo socio, uno di quelli appiccicosi” afferma appoggiando una mano sulla coscia di Kayden, coperta da dei pantaloni di seta.
Infastidita, storco la bocca, consapevole che ha ragione.
“Di sicuro non andrò a chiederle scusa. Invece di mettere in atto una scenata come quella, potevamo parlare come persone civili” Melissa annuisce d’accordo con me, ma senza smettere di ricordarmi che entrambe siamo dalla parte del torto; inutilmente, perché non andrò strisciando da Amirah, e lei lo sa.
“Parlando di altro, non trovo Rebeka da giorni ormai…credo che andrò a controllare a casa sua” dico lasciando alle spalle la discussione di poco fa. “Credete le sia successo qualcosa?” Kayden si agita sul divano, spostando lo sguardo avanti e indietro da me alla sua ragazza.
“Non lo so, non è la prima volta che scompare così…”
“Forse è meglio se vai a controllare” afferma concitato “Non vorrei le sia successo qualcosa. Non conosco la bambina, ma Melissa mi ha parlato di lei, e so quanto ci tieni”
Per quanto io ne senta il bisogno, non posso andare a cercarla adesso. Ho ancora un’infinità di riunioni a cui devo attendere e documentazioni da controllare. Se potessi lascerei queste problematiche nelle mani di Melissa, ma è da giorni ormai che mi chiede il pomeriggio libero per poter passare del tempo con Kayden, per potersi godere il suo ragazzo senza avere addosso sguardi indagatori.
“Appena finisco qui, vado”
I due si allontanano mantenendo una debita distanza tra di loro per non destare sospetti riguardo al loro tipo di relazione.
Proseguì il mio lavoro senza interruzione fino alla fine, riuscendo a distrarmi abbastanza. Controllo un’ultima volta che l’ufficio sia in ordine, spegnendo la luce e chiudendo la porta. Sono le diciassette e mezza, e nonostante il buio sia sempre più vicino, mi dirigo verso la casa di Rebeka.
Nel frattempo che Amirah giocava al gatto e al topo, ho tentato di trovare la piccola, ma per giorni non c’era traccia di lei, neanche chi solitamente si fermava nei dintorni a pranzare o cenare l’aveva vista.
Nel tragitto verso la villa, mi fermo per la millesima volta a controllare che non sia fuori, ma senza alcun successo.
La notte inizia a calare sui tetti degli edifici, il sole si nasconde oltre il confine, dove i nostri occhi non riescono più ad arrivare, l’erba inizia a coprirsi di brina e senza la luce naturale della grande stella, si accendono quelle artificiali, nel vano tentativo di sostituire i raggi di sole.
Giungo davanti al cancello quando le prime stelle iniziano a costellare il cielo ormai nero; un quadro perfetto per coloro che hanno occhi per rendersi conto della bellezza che si ha attorno.
Ancora prima che possa fare un passo fuori dall’auto, due omoni si pongono ai lati di essa, chinandosi quanto necessario per parlare.
“Non può fermarsi qui signora” borbotta uno dei due con vice roca. L’altro, più burbero del primo, grugnisce in assenso, sistemandosi la cravatta che ha attorno al collo.
“Voglio solo assicurarmi che una persona stia bene. Non c’è bisogno che io entri” tento di uscire dall’auto, ma se riesco ad aprire di poco la portiera, è perché colgo i due impreparati. L’uomo che mi si è rivolto per primo, non appena si accorge di quello che sto facendo, appoggia una mano su di essa, chiudendola sgarbatamente.
“Deve andarsene, la famiglia Scott non ha intenzione di ricevere ospiti a quest’ora”
“Scott…?” sussurro tra me e me, deglutendo a fatica.
“L’altro cognome qual è?” chiedo frettolosamente, ma i due si allontanano tornando al loro posto, facendomi cenno con la mano di allontanarmi.
Ancora intenta ad elaborare quello che è successo, metto in moto l’auto, lasciando alle spalle la villa che è sotto sorveglianza. Rebekah probabilmente era a casa in quel momento, e se c’erano due guardie del corpo fuori a controllare che tutto andasse bene, probabilmente anche i suoi genitori erano lì. Quatti nelle loro stanze, come se non lasciassero la figlia sola a casa per giorni.
Il giorno dopo vi ritornai, trovando le stesse due persone a tenere d’occhio i dintorni. Anche questa volta, venni fermata e mandata via senza poter proferire parola. Dopo tre tentativi, decisi di non affrontarli più a viso aperto, ma di aspettare che si allontanassero.
Mi fu possibile avvicinarmi al cancello qualche giorno dopo.
Era mattina presto quando decisi di salutare Kayden, con cui ero fuori per finalizzare la nostra collaborazione, e tornare qui, a qualche metro di distanza dal cancello. Le due guardie del corpo non erano presenti, oppure erano nascoste da qualche parte. Decisi comunque di scendere dall’auto ed avvicinarmi. Cercando di non far rumore, mi avvicinai il più possibile al muro, sentendo delle voci.
“La vostra auto è pronta” sentì dire da una voce che riconobbi subito essere quella dell’uomo dei giorni passati, il solito che si rivolgeva in maniera brusca nei miei confronti.
“Ciao mamma, ciao papà!” saluta quella che riconosco immediatamente essere Rebekah. Nessuno dei due risponde, l’unica cosa che si sente è il rumore di due portiere che si aprono e poi chiudono, un rumore che riecheggia nel silenzio. Le porte del cancello si aprono subito dopo, producendo un rumore metallico e stridente. Un auto esce, seguita poi da un’altra dello stesso modello e colore. I finestrini tinti di nero non mi permettono di vedere chiaramente chi ci sia al loro interno, ma intravedo due occhi guardarmi con diffidenza. Uno sguardo che mi pare di riconoscere, che sicuramente avrei riconosciuto avessi avuto più tempo per studiarlo, ma la macchina sfreccia via.
“Rebekah” chiamo ad alta voce, ricevendo come risposta un urlo di gioia.
“Miray!” prima che il cancello possa chiudersi, entro nel giardino di casa, venendo subito travolta da un corpicino che mi salta addosso, avvolgendomi con braccia e gambe in un abbraccio caloroso.
“Dove sei stata tutto questo tempo?”
“A casa, i miei genitori sono rimasti con me due settimane!” dice entusiasta. Gli occhi le brillano come non mai, una felicità si fa spazio in essi, una di quelle che vedi raramente, che solo un padre o una madre possono darti. Riporta i piedi per terra, tirandomi per un braccio verso la casa. L’interno è sempre lo stesso, arredato ma triste. Non c’è niente di particolare che renda l’idea ci sia una famiglia felice in questa abitazione. Colori neutri, niente appoggiato sul tavolo per indicare che qualcuno si sieda a bere o mangiare qualcosa. La cucina perfettamente pulita, priva di briciole e gocce d’acqua.
“Come stai?” domando gentilmente, lasciandomi guidare da lei. Sale le scale in fretta, entrando nella sua camera da letto.
“Bene! Era da tanto che non stavo con loro, anche se adesso sono dovuti tornare a lavoro” mormora l’ultima frase con lo sguardo rivolto verso le mani appoggiate sul grembo. Ancora in piedi di fronte a lei, mi accovaccio, intrecciando le sue piccole dita con le mie.
“Che ne dici se usciamo un po’? Ti prometto che torniamo prima che qualcuno si accorga che sei uscita”
“Sii, andiamo in un museo?!” la sua richiesta mi spiazza. Mai una bambina della sua età chiederebbe di fare una cosa del genere.
“Sei sicura? Possiamo andare ovunque tu voglia” la piccola annuisce balzano giù dal letto. Mi prende nuovamente per il braccio, scendendo giù.
“La giacca!” urlo ridendo. La sua euforia è travolgente, tanto da farmi dimenticare la discussione avuta con Amirah.
Risalgo in fretta le scale, afferrando al volo una giacca dall’armadio, per poi tornare da lei, e lanciargliela. La prende al volo dondolandosi sui talloni e battendo le mani.
“Andiamo”
Giungiamo al museo più tardi del previsto. Il traffico di Manhattan rallenta visibilmente le vite di tutti.
Acquistiamo i biglietti per entrare, intrufolandoci tra la folla per non rimanere ammassate.
“Da che parte vuoi andare per prima?” senza rispondere verbalmente si incammina verso uno dei quadri più piccoli, avvicinandosi con il viso sgranando gli occhi. Sposta lo sguardo da un punto all’altro, analizzando ogni minimo dettaglio, spostandosi poi verso un altro.
Ad un certo punto durante la nostra visita, mi sono ritrovata a doverla prendere in braccio per permetterle di vedere i dipinti, anche quelli più grandi e alti. Appoggiata alla mia spalla, si rabbuia alla vista di una donna dipinta con colori scuri e freddi. È piegata in due, tenendosi una mano sul cuore con le dita conficcate nella carne mentre l’altra mano stringe lo stomaco, come per strapparlo.
“Non mi piace” afferma iniziando a piangere. Spaventata dal suo improvviso cambio di umore, le copro gli occhi sentendo il cuore battere forte; non so come comportarmi quando persone adulte piangono, figuriamoci con i bambini.
“No no, non piangere, ti prego” sussurro supplichevole sotto gli sguardo di tutti gli altri. “Era un brutto quadro, hai ragione, chiederò di farlo togliere” il mio tentativo di consolarla sembra funzionare. Smette di piangere, singhiozzando a vuoto sulla mia spalla nel frattempo che le asciugo le lacrime. La mattinata andò avanti senza intoppi per qualche altro minuto, fino a quando no non decise di aprire inconsapevolmente il vaso di pandora.
“Mamma e papà sono dovuti uscire per andare a trovare lo zio Barton” dice tirando su con il naso. Mi irrigidisco subito, facendo una smorfia nel sentir nominare quel nome. “Lo conosci?” chiede innocentemente accorgendosi della mia espressione, ignara di quello che succede fuori dalla sua bolla priva di iniquità.
“No” esclamo facendo finta di niente. “Tu invece lo conosci da tanto?”
“Da quasi due anni!” esclama con un sorriso “Gli voglio tanto bene” continua, saltellando per i corridoi del museo, come se il quadro di poco fa non l’avesse letteralmente traumatizzata.
“Ti tratta bene?” domando seguendola fino ad una statua.
“Si! Mi porta sempre regali”
Vorrei chiederle altro, ma usarla per ricevere informazioni riguardo a Joshua è da persone meschine. Non userei mai una bambina per raggiungere i miei scopi, per quanto lo voglia fare. Ignoro per il momento l’argomento, lasciandomi travolgere dalla sua gioia e spensieratezza.
Tra il girare per l’edificio pieno d’arte, Rebeka che non smette di emozionarsi, una telefonata con Diana e qualche messaggio mandato a Melissa, passano un paio d’ore.
La riaccompagno a casa dopo averle comprato lo zucchero filato che si sta ancora gustando. Fortunatamente il viaggio di ritorno è più breve dell’andata, con qualche macchina in giro e pedoni che attraversano la strada a loro piacimento.
“Rimani da sola stasera?” chiedo aspettando che apra la porta.
“Si, mi hanno detto che tornano domani” afferma togliendosi le scarpe e lanciando la giacca su una delle sedie in cucina.
“Puoi venire a dormire a casa mia se vuoi. Ci saranno anche Arisa e Jeffrey” propongo lasciandole una carezza sui capelli.
“Mai” esclama qualcuno alle mie spalle. “Esci da qui”
“Tu…”
Ed eccola lì, in tutta la sua gloria, la donna che avrebbe dovuto amarmi più di tutti, la donna che si sarebbe dovuta prendere cura di me, la donna che avrebbe dovuto sostenermi…ma invece è stata solo una madre fallita, una madre priva di sentimenti e dolcezza.
“Fuori da casa mia!” urla furiosa. È totalmente diversa, gli occhi azzurri che una volta erano blandi e spenti, ora sono più colorati, vivaci e pieni di sentimenti…contentezza, felicità. La guardo più attentamente, cercando con veemenza qualcosa, un sentimento diverso da quelli già presenti, sperando di trovarvi… pentimento. Ma non trovo niente… neanche una sfumatura di vergogna per quello che mi ha fatto subire.
“Rebeka, vieni subito qui” sibila lentamente, senza distogliere lo sguardo. Se prima la sua espressione era quella di una donna finalmente libera da ogni dolore, ora è identico a quello di una volta, uno sguardo a cui mi ero abituata fin troppe volte a vedere sul suo volto; odio, ribrezzo e disgusto. Ricordandomi della bambina, mi giro verso di lei. Stessi occhi azzurri, stessi lineamenti…
“L-lei è…”
“No, perché non sarà mai come te. Mia figlia è diversa, non è una nullità”
“R-rebeka t-“ tento di far uscire quelle parole dalla mia bocca, ma è come se qualcuno mi avesse legato una corda attorno alla gola, e ogni volta che sto per pronunciarle, viene stretto togliendomi il respiro. “Mi-a…”
“Non provare a corromperla con i tuoi giochetti!”
Indietreggio immediatamente, mentre la piccola bambina ci guarda curiosa…Manuel e Amanda vedono il loro fratello maggiore come uno sconosciuto… Rebeka vede me, sua sorella, come una semplice amica.
Volgo loro le spalle, per non dare la soddisfazione a mia madre di vedermi soffrire. Esco di fretta dalla casa, andando a sbattere contro un corpo rigido.
L’altro mio peggior incubo, fermo dietro alla porta pronto ad azzannarmi.
“No…” lo allontano bruscamente facendolo barcollare. Stesso sguardo; spensieratezza e poi ribrezzo.
Supero le due guardie del corpo che mi guardano increduli, entrando frettolosamente in macchina, lasciandomi alle spalle un angelo in mano a due mostri.
Non so come sia tornata a casa senza causare incidenti, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare mentre stringevo il volante con forza, erano quelle due figure tanto vicine quanto lontane. Padre e madre di sangue, sconosciuti per scelta.
Esausta dagli avvenimenti, crollo non appena metto piede in casa. Le ginocchia cedono, le braccia troppo deboli per riuscire a reggermi un minimo. Il dolore che provo all’impatto con il pavimento non è niente a confronto con quello che provo dentro di me. Ad aiutarmi a rialzarmi è Arisa che mi Afferra per i fianchi, facendo leva con le gambe per tirarmi su. Con le labbra che fanno fatica ad aprirsi, la ringrazio, accennando un sorriso.
Probabilmente per il modo in cui sono giunta a casa, oppure per come ho salito le scale fino in camera, ma vengo seguita dalle altre due persone che vivono qui.
Prima che possano dire qualcosa, mi chiudo in camera con le mani tra i capelli. Bussano frenetici, cercando invano di entrare, consapevoli del mio stato d’animo. Ma a che scopo? Per trovare una donna distrutta e al limite? Per cercare di rimettere a posto i pezzi ormai diventati briciole? Niente ha più senso.
“Ahhh!” un urlo di dolore mischiato a quelli ansiosi e preoccupati di Arisa e Jeffrey, anni e anni di sofferenze rimasti chiusi in una cassaforte che non doveva mai essere aperta, vengono fuori con prepotenza. Demoni che si stanno finalmente impossessando di quel poco di sano che mi è rimasto. Le urla cessano, anche Arisa e Jeffrey si sono arresi davanti all’evidenza; da questa parte c’è solo un corpo che finge di essere ancora vivo.
Lacrime calde e pesanti scendono sul volto, fino a soffocarmi. I singhiozzi mi fanno mancare il respiro, talmente profondi e autodistruttivi che mi devo appoggiare al muro. Il mio stesso corpo vuole farla finita. La mia stessa mente si è arresa…l’unico ancora vivo è il cuore. Kayden e poi Melissa tentano di entrare, di convincermi a tornare da loro, tra le loro braccia, in quel mondo che non mi ha mai protetta.
“Lasciatemi andare!” suppliche “Basta!” e ancora suppliche. Le unghie anche se corte, graffiano la pelle fino a farmi sanguinare. Un rossore che mi fa sorridere. “Non sono invincibile” sussurro tra me e me, incatenandomi in quel momento. Qual è il senso della mia vita?
“Lasciami anche tu” sussurro appoggiando una mano a livello del cuore. “Sei stanco come tutti gli altri…riposati” i battiti piano piano rallentano, un movimento calmo, privo di frenesia e adrenalina. Forse finalmente potrò dormire senza incubi, senza la paura di rivedere i miei demoni.
“Miray…” sussurra dall’altra parte della porta Amirah. Un’altra persona che pensa di potermi aiutare…
“Vattene” dico ricominciando ad agitarmi non appena i battiti iniziano ad aumentare. “Vattene come tutti gli altri…siete liberi… lasciate che mi liberi anche io di me stessa”
Struscio fino al comodino, ignorando le loro voci. Apro il cassetto con mani tremanti, recapitando il barattolo di sonniferi. Il medico diceva sempre una compressa per quando sei agitata, due per quando inizi a sentirti male… cosa potrebbe succedere se ne prendessi di più? Forse potrei finalmente stare bene, potrei finalmente sorridere e divertirmi come tutti gli altri. I minuti passano, le urla continuano, il frenetico bussare alla porta non cessa un attimo, fino a quando non viene sfondata, e cinque paia di occhi mi guardano terrorizzati.
“Non ce l’ho fatta… sono una codarda” dico con un debole sorriso, iniziando poi a ridere in maniera maniacale, appoggiandomi al mobile alle mie spalle. I sonniferi mi cadono dalle mani, rotolando fino ai loro piedi. Uno sbatte contro le scarpe di Arisa, fermandosi sotto i suoi occhi rossi e lucidi.
“Guardate… neanche loro mi vogliono” indico la compressa, ricominciando a graffiarmi la pelle. “Neanche dei cazzo di sonniferi mi vogliono!” Arisa tenta di avvicinarsi pallida in volto, ma viene fermata da Jeffrey “Fai bene…” sussurro, cercando di ignorare il dolore che provo alla vista di quel gesto.
“Miray…”
“Shhh… tu non mi vuoi Amirah, non mi hai mai voluta. Vuoi un motivo per andartene e lasciarmi? – indico Kayden che scuote la testa – eccolo lì” la donna corruga la fronte non capendo, senza però tirarsi indietro.
“Non così Miray… non farlo” fingo di non averlo sentito, continuando con il mio discorso.
“Io e lui…” prima che possa finire la frase Melissa si inginocchia di fronte a me abbracciandomi.
“Smettila” cerco di allontanarla, ma sono troppo debole.
“Sono qui per te” sempre le solite parole di circostanza che tutti riescono a pronunciare, ma di cui nessuno sa il vero significato.
“Perché?!...aahhh!” le mie urla riecheggiano nella casa. Il petto di Melissa copre di poco la mia sofferenza, ma tutti i presenti nella stanza la percepiscono. Kayden si abbassa accanto alla sua ragazza, avvolgendoci con le sue braccia.
“Noi siamo qui Miray… sempre” con le ginocchia al petto, rannicchiata tra le loro braccia, scendono le ultime lacrime, macigni che alleggeriscono di poco il dolore straziante che provo. 
Amirah tenta di avvicinarsi non appena i due si allontanano, stando fermi vicino alla porta. Si inginocchia, mantenendo una debita distanza tra di noi, allungando una mano. Le afferro l’avambraccio tirandola verso di me. Protesa in avanti sulle ginocchia, mi guarda addolorata.
“Cosa è successo?”
“Rebeka… è mia sorella” sussurro con un groppo in gola. “I miei genitori sono qui” Melissa sussulta, barcollando all’indietro verso le braccia di Kayden. Pensavamo entrambe fossero morti in qualche via della città, troppo sconquassati dalle loro dipendenze per poter tornare a casa. “Rebeka… - strofino gli occhi con il palmo della mano – sta vivendo la mia stessa vita, l’unica differenza è che non deve vedere i nostri genitori ubriachi” rido amaramente, afferrando il colletto della maglietta di Amirah. “Capisci Amirah? Mia sorella non sa chi sono” la spingo via con prepotenza.
“Mi dispiace…” sussurra seduta sul pavimento con le mani che la sorreggono.
“Non mi interessa. Non me ne faccio niente del tuo dispiacere” rispondo alzandomi. Le braccia bruciano, e quando abbasso lo sguardo, i graffi che inizialmente erano pochi, adesso sono accavallati tra di loro, segni obliqui che ricoprono tutte le braccia. Li sfioro con le dita, accorgendomi del gonfiore e del dolore fino a poco fa assente.
“Potete occuparvi voi dell’azienda per il momento?” chiedo a Kayden e Melissa, che annuiscono in assenso.
“Ok…ho bisogno di qualche giorno per riprendermi” ammetto uscendo dalla stanza. Con il telefono in mano, chiamo la mia psicoterapeuta di fiducia.
“È da tanto che non ci sentiamo Miray”
“Ho bisogno di aiuto”

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