Il viaggio in aereo si dimostra essere uno dei peggiori che abbia mai fatto. Tra il bambino seduto alle mie spalle che continua a mangiare rumorosamente le patatine e a battere i piedi contro il mio sedile, i vecchi che tossiscono ogni tre per due e i neonati che non sanno far altro che urlare, inizio a pentirmi della decisione presa. Il telefono sono stata costretta a spegnerlo, perciò non so se Amirah abbia risposto o meno. Tre ore che sembrano infinite.
La prima cosa che noto non appena scendo è il clima, nettamente diverso da quello a New York. Il freddo si sente, ma non è pensante come a Manhattan che è ricoperta di neve, tanto che molte volte è difficile muoversi. Non avendo bagagli con me, sorvolo tutti gli altri, passando il check-out più in fretta degli altri; non se il motivo fosse la mancata presenza di valigie ai miei fianchi, o il nome scritto sui documenti.
Esco dall’aeroporto accorgendomi subito dell’atmosfera diversa che c’è. Le strade sono più strette, circondate ovunque da alberi e palme. I grattacieli presenti a Manhattan, qui sembrano essere spariti, lasciando spazio a pochi edifici alti, lontani tra loro. L’aria è diversa, se dove vivo si può occasionalmente sentire l’odore sgradevole innalzarsi, qui predomina il profumo di mare e cibo, nonostante siamo ancora troppo lontani dai due elementi. Il rumore non è solo di auto che si muovono, ma anche dell’acqua che in lontananza si scontra con gli scogli, delle onde che si impossessano momentaneamente dell’udito umano lasciandoli a bocca aperta davanti a tanta bellezza.
Un taxi si ferma a pochi metri di distanza, aspettando qualche cliente. Mi avvicino il prima possibile, entrandovi silenziosamente, prendendo alla sprovvista l’autista. Non faccio caso al piccolo spavento che si è preso, dandogli l’indirizzo di casa Aceveds. Se so dove si trova Amirah in questo momento è grazie ad Hana, o meglio, grazie a Diana che è riuscita a convincere la sua ragazza, dopo lunghe suppliche, a darmi una “seconda possibilità”.
L’auto si mette subito in movimento, cullandomi insieme ai miei pensieri. Guardando fuori dal finestrino, finalmente capisco gli sguardi persi e lontani di Amirah. Il motivo per cui spesso era giù di morale quando girava per le strade illuminate di New York, che ormai sembrano buie rispetto a quelle di Miami, è davanti ai miei occhi. Gli sguardi felici dei bambini che ci sono qui, sembrano non esistere affatto a Manhattan, là è tutto buio e sporco, e la consapevolezza mi fa corrugare la fronte. Come ho fatto a non accorgermene mai? In quel momento, mi viene subito da pensare ad una frase sentita troppo spesso, ma a cui non ho mai davvero creduto.
“Una volta provato cosa voglia dire avere il meglio, non ci si accontenta più di quello che una volta si aveva.”
E mi trovai d’accordo, perché lì, davanti alla porta di casa di Amirah, non ebbi intenzione di lasciare andare quei briciolo di felicità a cui ero venuta a contatto da mesi ormai, prendendo consapevolezza della fortuna avuta solo in quell’istante. Se ci sono persone che nonostante abbiano la felicità a portata di mano, tendono comunque a mirare sempre più in alto, chi sono io per non inseguire quel sentimento?
Suono al campanello, aspettando paziente che qualcuno venga ad aprire. A farlo è un ragazzo giovane, capelli neri come quelli di Amirah, e gli stessi occhi verdi; il fratello.
“Ciao…hai bisogno di qualcosa?” domanda con un sopracciglio alzato.
“Si, Amirah è per caso a casa?” il ragazzo corruga la fronte sentendo il nome della sorella venir nominato dalle labbra di un’estranea, studiandomi attentamente. Uno sguardo di realizzazione si fa largo sul suo volto.
“Tu sei Miray, quella Miray di cui mia sorella non sembra riuscire a fare a meno di parlare” arrossisco alle sue parole, grattandomi il collo a disagio.
“Si, sono io – allungo una mano verso di lui – piacere, Miray Tanner”
“Manuel Aceveds” risponde stringendomi la mano. “Hai una presa forte” esclama, guardandomi sbalordito.
“Quando sei un CEO, la prima impressione che gli altri si fanno su di te, è attraverso una stretta di mano…questione di abitudine” ammetto con un sorriso.
“Vieni pure dentro. Amirah è uscita a prendere qualcosa al negozio dietro l’angolo, sarà qui a momenti. Accomodati”
Entro seguendo Manuel solo dopo essermi tolta le scarpe, osservando il ragazzo che occasionalmente si mette a saltellare. La casa è quella di due persone umili che hanno fatto di tutto per crescere i loro figli al meglio. Un ambiente accogliente dove sicuramente tutti e tre i figli si sono sentiti a loro agio. I colori sono tendenti al caldo, dando alle stanze un’aria di spensieratezza e… famiglia. È completamente diversa dalla casa in cui sono cresciuta da piccola, diversa da quella in cui sono andata a vivere quando mi sono sposata, e diversa da quella in cui vivo ora.
“Manuel, chi era alla porta?!” urla una voce femminile.
“Mamma, abbiamo un ospite!” risponde il ragazzo, facendomi cenno di sedermi sul divano. Mi siedo accarezzando il materiale che mi avvolge.
La donna in questione esce da quella che presumo sia la cucina, fermandosi all’entrata del salotto. È bassa di statura, capelli mori legati e grandi occhi marroni che mi guardano.
“Chi è questa bellissima signora?”
“Miray” a rispondere è Manuel, che lancia alla madre uno sguardo suggestivo. L’unica cosa che la donna si permette di fare è sorridere, avvicinandosi.
“Salve” esclamo alzandomi in tempo per sentire le sue braccia avvolgermi in un abbraccio.
“Sono contenta tu sia venuta, Amirah in questi giorni non era molto felice. Io sono la madre, chiamami pure Mary”
Un’altra voce femminile si fa strada nelle stanze, accompagnata da passi che scendono le scale.
“E questa adesso chi è? Una delle solite signore che vengono per romperci il cazzo?”
“Amanda!” ad urlare non è Mary, come tutti penserebbero, che anzi, sorride e scuote la testa, ma un uomo che presumo sia il padre.
“Ti prego non far caso al comportamento di mia figlia, è in quella fase adolescenziale dove le piace ribellarsi” commenta l’uomo stringendomi la mano, mentre Amanda sbuffa infastidita risalendo le scale. “Gerald” dice l’uomo, dopo aver sentito una porta sbattere con forza. È abbastanza alto, capelli brizzolati e occhi verdi, uguali a quelli di Amirah; ecco da chi ha preso.
Dopo le presentazioni rimaniamo tutti e quattro a guardarci in imbarazzo, non sapendo come interagire tra di noi, ma il silenzio viene spezzato subito dopo, salvandoci da un disagio che stava per prendere il sopravvento.
“Vi ho sentiti da fuori, che sta succedendo?” esclama l’unica voce che riconosco. Amirah varca la soglia del salotto più bella che mai. Capelli sciolti che le ricadono sulle spalle, vestita diversamente da quando lavora in azienda, scarpe da ginnastica, jeans stretti che le fascino le gambe lunghe e un maglione nero per tenerla al caldo. Mi accorgo di tutti i suoi cambiamenti, ma sono i suoi occhi che mi paralizzano; sempre verdi, ma spenti, coperti da un velo di tristezza.
Ferma poco più lontano con una busta in mano, mi guarda come se fossi un miraggio. Non prova ad avvicinarsi, anzi, si volta verso i suoi genitori che continuano a sorridere.
“Che ci fa lei qui?”
Sospiro abbassando lo sguardo, giocando nervosamente con un filo che fuoriesce dai pantaloni. Una mano delicata mi viene appoggiata sulla spalla, spingendomi in avanti.
“Amirah, fai fare un giro a Miray” esclama Mary, prendendo la busta dalle mani della figlia maggiore. Saliamo le scale in silenzio, giungendo davanti a delle porte, da una delle quali proviene della musica; la stanza di Amanda.
“Posso farmi una doccia? Non è stato uno dei miei viaggi migliori” sussurro timidamente, non volendo invadere i suoi spazi, mentre continuo a seguirla a debita distanza.
Annuisce senza proferire parola, avviandosi verso una delle porte con passo veloce.
“Questo è il bagno, prenditi tutto il tempo che vuoi” dice spostandosi per farmi passare, senza però guardarmi negli occhi.
“Grazie” sussurro con un mezzo sorriso che non viene ricambiato.
La seguo con lo sguardo mentre si allontana, osservando il movimenti dei suoi fianchi. Non appena scompare dietro l’angolo, chiudo la porta alla mie spalle con uno sbuffo, accendendo l’acqua. Mentre aspetto che si riscaldi, mi sfilo i vestiti di dosso, lasciandoli per terra, un capo sopra l’altro.
Mi metto sotto il getto dell’acqua, rilassando tutti i muscoli tesi, massaggiando il corpo con movimenti circolari. Le braccia e le gambe si alleggeriscono, facendomi sospirare contenta.
“T-ti lascio il cambio qui su” esclama improvvisate Amirah, facendomi sobbalzare. Non avendola sentita entrare, scivolo sul pavimento bagnato cadendo rovinosamente a terra, sbattendo il braccio che mi sono tagliata durante le prime prove dell’auto.
“Cazzo!” sbotto stringendo l’avambraccio dolorante. Le porte del box doccia vengono aperte bruscamente da una Amirah spaventata. Quello che la donna sta guardando è un corpo nudo rannicchiato sul pavimento che si stringe il braccio con sguardo dolorante. I suoi occhi però non si soffermano su quello, ma viaggiano per tutto il corpo, soffermandosi a lungo sul seno bagnato che si muove su e giù a ritmo del respiro e sulle gambe lucide e piene di gocce d’acqua.
“Non è il momento di guardarmi in quel modo Amirah” sussurro a denti stretti, cercando di non urlare addosso. Deglutisce rumorosamente, spegnendo l’acqua e affrettandosi ad aiutarmi a mettermi in piedi. Nuda e completamente bagnata mi appoggio su di lei, cercando supporto. Le sue braccia mi stringono il busto, una mano dietro alla schiena e l’altra sullo stomaco.
“Piano” sussurra facendomi sedere su uno sgabello, coprendomi con un asciugamano.
“Sto bene, è solo una botta” non ascolta quello che dico, posizionandosi tra le mie gambe seduta sui talloni, asciugandomi attentamente. Cerco di allontanarla, ma mi blocca.
“Stai ferma Miray” sussurra continuando con le sue azioni. Traccia con l’asciugamano la cicatrice che partendo dalla clavicola, fermandosi al seno. Nonostante i suoi movimenti siano prive di malizia, il mio corpo reagisce al suo tocco. Stringo le gambe cercando di alleviare la sensazione di eccitazione, avvicinando di conseguenza Amirah al mio copro. Anche lei persa nell’atmosfera, traccia inconsapevolmente il capezzolo turgido con l’indice ancora coperto, avvicinandovi la bocca, avvolgendo l’altro con labbra calde e bagnate. Guardandola dall’alto, mi perdo nei movimenti lenti della sua bocca e lingua, spingendo il petto in avanti, cercando più contatto. Il dolore al braccio sembra scomparire, riuscendo solo a sentire il suo tocco e i suoi mugolii di piacere.
“Amirah…” sentendo il suo nome si blocca, allontanando il capo e alzandosi in ginocchio. Finalmente faccia a faccia posso studiare la sua espressione piena di desiderio. “Non vuoi questo” sussurro accarezzandole le guance accaldate.
“Invece si” risponde cingendomi il collo “Ti voglio” mi sussurra all’orecchio, mordendomi il lobo.
“Prima dobbiamo parlare” mormoro chiudendo gli occhi. Le stringo la schiena coperta, lasciandole un bacio sulla fronte.
Mi alzo dalla sedia, lasciando Amirah ancora in ginocchio che cerca di riprendersi. Le appoggio due dita sotto il mento, facendole alzare lo sguardo “Respira piccola”.
Deglutendo visibilmente, annuisce alzandosi a sua volta infilando le mani in tasca. Mi vesto in fretta sotto i suoi occhi attenti, spazzolando i capelli senza asciugarli. Usciamo insieme dal bagno, camminando fino infondo al corridoio, entrando in un’altra stanza.
Le pareti sono tendenti ad un verde chiaro, tappezzate di poster di cantanti e band; classica camera di un’adolescente. Il letto a una piazza e mezza si trova contro una parete, con un armadio color panna al lato opposto. Una piccola biblioteca si trova a destra del letto, mentre una scrivania si trova sotto all’unica finestra presente nella stanza che è adornata da una tenda ben ricamata.
“È camera mia” confessa grattandosi il sopracciglio, mentre prendo in mano una delle foto dove ritrae Amirah con suo fratello e sua sorella. Subito appena entrata avevo intuito dal profumo che fosse la sua stanza. “È imbarazzante”
“No…è bellissima. Avrei tanto voluto avere una camera del genere da piccola, dove avrei potuto fare tutto quello che volevo senza essere giudicata” mormoro con un sorriso amaro “Sei fortunata ad avere dei genitori del genere”
Rimetto a posto la foto, sedendomi sul letto morbido solo dopo aver chiesto ad Amirah il permesso.
“Di cosa volevi parlare?” chiede facendo finta di non sapere quale sia il problema.
“Perché non sei tornata come dicevi?” rispondo con un’altra domanda, puntandole gli occhi addosso. Sotto al mio sguardo fisso, inizia a sentirsi a disagio, toccandosi i capelli in continuazione e mordendosi le unghie, un vizio che sembra non riuscire a togliere. Afferro le sue mani costringendola a guardarmi negli occhi. “Perché Amirah?” insisto volendo una risposta.
“Non me la sono sentita di lasciare la mia famiglia”
“È non potevi dirmelo invece di ignorarmi per giorni?” dico freddamente “Non potevi avvisarmi invece di farmi uscire di casa per raggiungerti in aeroporto, dove sono rimasta come una stupida ad aspettare una persona che non aveva minimamente intenzione di vedermi? Ad aspettare una donna che in tutto questo tempo, l’unica cosa che ha saputo fare è prendermi in giro?” so che queste parole la faranno arrabbiare, ma è quello a cui sto puntando. Amirah è una donna tenace, su questo non si può discutere, ma la giovane età è il suo punto debole. Provocata nei punti giusti agisce d’impulso, lasciandosi andare senza filtri e infatti è quello che succede. Sfila le mani dalle mie stringendole ai fianchi, guardandomi furiosa. Freddo a contatto con il caldo.
“Tu sei l’unica che in questa relazione si è presa in giro dell’altra persona. Prima Kayden Forbes e il giorno dopo un’altra donna, mentre io ero qui a pensare solo a te!” accusa alzandosi in piedi e puntandomi un dito contro.
“Quindi è questo il vero motivo” dico con un sorriso che non riesco a trattenere. Il mio divertimento sembra farla arrabbiare ancora di più, tanto che si avvia verso la porta con l’intenzione di andarsene. La raggiungo a grandi falcate fermandola per il braccio.
“Prima di accusarmi di cose non vere, dovresti chiedere la mia versione dei fatti, o sei troppo intelligente per credere a quelle che pensi siano scuse?” provoco facendola girare verso di me.
“Kayden e io n-“
“Si, perché sono stufa dei tuoi gioch-“ la interrompo nella sua stessa maniera, baciandola profondamente. Il bacio continua fino a quando non la sento lasciarsi andare tra le mie braccia.
“Hai intenzione di ascoltarmi adesso?” sussurro a fior di labbra, allentando la presa lentamente, assicurandomi che non scappi. “La donna di cui stai parlando…conosco il suo nome solo perché stavamo giocando a paintball insieme. Ero lì con Jeffrey e Arisa che volevano fare qualcosa di divertente prima di partire per le vacanze” confesso.
“Perché in quella foto sembrava stesse succedendo altro?” chiede incrociando le braccia al petto. Ricordando il motivo, rido scuotendo il capo.
“Non mi ero accorta che uno degli avversari mi stava per sparare ma Ember si, quindi per “salvarmi” mi si è buttata addosso” racconto cercando di capire se sta credendo alle mie parole. “Non posso negare che lei ci stesse provando con me, ma non è successo niente, te lo posso assicurare. Se non mi credi puoi pure chiedere a Jeffrey e Arisa, erano tutto il tempo con me” finalmente convinta annuisce, sbuffando.
“Ok, e con Kayden?”
“Con lui è più complicato…ma non è comunque successo niente. Mi ha invitato a cena per cercare di conoscermi meglio visto che non appena tornerò a New York dovremo condividere le aziende” la notizia sembra scocciarla.
“Condividere le aziende…?”
“Si, la proposta consisteva in questo” chiarisco i suoi dubbi, risedendomi sul letto, seguita a ruota da lei.
“Quali sono le condizioni?” la sua astuzia dimostra come nonostante si trovi in questo ambiente di lavoro da poco, sappia già cosa comportano accordi del genere.
“C’è una cosa che preferisco dirti una volta tornate a New York… vorrei godermi questo giorno con te. Non chiedermi altro, per favore” supplico già consapevole che questi saranno gli ultimi attimi che passeremo lontane da quel mondo. Nel frattempo che stavamo discutendo, i miei capelli si sono asciugati, come dimostrazione di quanto a lungo siamo rimaste a parlare.
“Cosa intendevi con il dire “Non è stato uno dei miei viaggi migliori?” cambia argomento accettando la mia riservatezza.
Mi lascio andare sul letto, brontolando stanca. “Il jet privato non era disponibile, perciò ho dovuto viaggiare con una compagnia aerea pubblica, e come se questo non bastasse, l’unico biglietto disponibile era quello economico” mi lamento, nel frattempo che Amirah ride delle mie disgrazie. “È successo di tutto durante quel viaggio” continuo, sentendola ridere ancora di più. “Ti diverte tanto sapere che è stato un incubo restare rinchiusa lì dentro per tre ore?”
Sdraiata accanto a me appoggia il capo sul mio petto. “Sento il tuo cuore battere” sussurra ad occhi chiusi.
“Ti sembra strano?” alla mia domanda non ricevo risposta. Abbasso lo sguardo sul suo viso, trovandolo rilassato. Il respiro regolare che soffia fra le sue labbra, è la conferma che Amirah si è addormentata. Sentendomi finalmente a mio agio con lei accanto, mi lascio cullare anche io fra le braccia di Morfeo.
***
Venni risvegliata dopo quello che presumo sia qualche ora, da delle carezze sulla schiena, e delle voci.
“Sei felice Amirah?” domanda una voce, che riconosco appartenere a Mary.
“Si mamma, tanto” risponde a bassa voce la donna che mi tiene tra le sue braccia. La porta della camera viene chiusa qualche secondo dopo, lasciandoci nuovamente sole. Sapendo di non poter continuare a fingere di star dormendo, inizio a muovermi, aprendo lentamente gli occhi, chiudendoli subito dopo, accecata dalla luce.
“Che ore sono?” chiedo con voce impastata mettendomi più comoda sul suo petto
“Quasi le 18, so che non è questo che volevi, ma tra poco arriveranno molti miei pareti a festeggiare capodanno”
“Finché siamo insieme, va bene così” sussurro pronta a riaddormentarmi, ma Amirah non me lo permette.
“Dobbiamo prepararci”
Tutti gli altri presenti a casa, quando scendemmo, erano già in frenesia. Gerald che urlava per la casa lamentandosi di non aver preparato ancora niente. Mary che cercava di calmarlo mentre teneva d’occhio il cibo che stava preparando. Manuel che apparecchiava il tavolo con qualche snack qua e là e Amanda che invece di aiutare stava seduta sul divano con le cuffie nelle orecchie.
“Cara, sei l’ospite, non devi aiutarci” afferma dolcemente la mamma della casa, costringendomi a sedermi accanto alla figlia minore.
“Stammi alla larga” borbotta la ragazza in questione, accorgendosi della mia presenza grazie al movimento del divano. Corrugo la fronte non capendo questa ostilità nei miei confronti. Le tolgo una cuffia, intenta a capire, ma vengo quasi letteralmente scaraventata a terra dalla sua rabbia.
“Devi lasciarmi in pace! Solo perché stai con mia sorella, non vuol dire che puoi parlarmi!” sbraita rossa in viso. Alzo le mani in segno di resa, allontanandomi leggermente, non avendo intenzione di essere nel raggio della sua rabbia.
“Amanda, smettila!” la riprendere Amirah uscendo dalla cucina, sconvolta dall’atteggiamento della sorella.
“Non potevi trovarti qualcuno di meglio?!” continua Amanda, non pensando a quello che dice e a come le sue parole potrebbero ferire.
Consapevole di peggiorare la situazione se rimango ancora seduta lì, mi alzo dal divano con un debole sorriso, avviandomi verso la cucina.
“Va bene così Amirah” mormoro con un sospiro sotto il suo sguardo pieno di scuse. Quello di cui non mi accorgo alle mie spalle, è il pentimento che si fa strada nel volto di Amanda. Ad accogliermi è Gerald, che sembra essersi calmato. In silenzio mi passa una scodella con dell’impasto, facendomi cenno di mescolare.
“Cosa stai preparando?” chiedo curiosa, seguendo i suoi stessi movimenti.
“Due torte, una al cioccolato e l’altra alla crema” risponde con un sorriso sornione. “È una cosa che mi piace molto. Preparavo sempre le torte quando quei tre erano piccoli – indica i suoi tre figli che adesso sembrano litigare – ne andavano matti. C’è stata una volta che Amirah ha provato ad aiutarmi, aveva attorno ai cinque anni, e non c’è bisogno di dire che quel giorno la casa cambiò colore. In ogni angolo c’era della farina, era riuscita in qualche modo a farla andare in luoghi impensabili – scuote la testa perso nei ricordi – la cosa però non mi dispiaceva, perché ogni volta che vedevo il suo volto adornato da un sorriso, il cuore mi si riempiva di gioia” sussurra con le lacrime agli occhi, cercando di asciugarsele con la manica del maglione che ha addosso. “Sono momenti che ogni genitore ha la fortuna di passare con i suoi figli. È stato così anche per te?” domanda privo di nequizia; Amirah non ha parlato loro del mio passato.
Lascio andare l’impasto appoggiandomi con i fianchi sul bancone, guardando Amirah, Manuel e Amanda venir ripresi da Mary.
“No…I miei genitori non erano mai presenti. All’inizio perché non riuscivano a rinunciare alle loro dipendenze, poi perché mi hanno venduta… perciò no, non ho mai passato questi momenti con loro” esclamo con un groppo in gola, maledicendoli per quello che mi hanno fatto passare, per i momenti di felicità mancati, per la spensieratezza che mi hanno strappato via, per il dolore che mi hanno fatto provare… “Mi sono dovuta sposare a 16 anni… m-mio marito Noah, all’inizio era gentile, mi trattava con dolcezza, e quello è stato l’unico momento in cui sono stata grata di quello che i miei genitori avevano fatto…ma quando poi suo padre è morto, tutto è cambiato” Gerald sembra sussultare ed irrigidirsi alle mie parole. “Per tutta la mia vita ho pensato che non avrei mai trovato pace, e ne sono tuttora convinta, però con Amirah almeno, posso essere tranquilla…” ammetto timidamente senza spostare lo sguardo dalla donna in questione che sbuffa infastidita, incrociando le braccia e imbronciandosi.
“Sai, abbiamo perso un figlio… era più grande di Amirah di quattro anni. È avvenuto all’improvviso, ancora oggi non sappiamo come sia successo, ma non c’è più. Ti sto raccontando questo per dirti che, quella sofferenza che hai addosso, non andrà mai via, quel senso di impotenza farà sempre parte di te…ma devi andare avanti, prendi quei sentimenti, accettali come tuoi e continua per la tua strada” confessa lasciando scendere le lacrime. Lo abbraccio nel tentativo di alleviare il dolore, entrambi cercando di consolarci l’un l’altro.
Il campanello che suona ci fa staccare. Il silenzio regna sovrano nella casa, tutti intenti a guardarci con occhi sgranati.
“Sono già qui…” sussurra Manuel per non farsi sentire dagli ospiti, causando l’agitazione del padre.
“Miray, dobbiamo finire queste torte!” urla Gerald in preda al panico, completamente dimenticandosi delle lacrime, riportando tutti gli altri in movimento. Mary e Amirah accolgono gli ospiti, Amanda sistema il salotto e Manuel finisce di allestire il tavolo.
Quando è l’ora di sfornare le torte, la casa è piena di persone. Tra zii, cugini, fratelli, sorelle, suoceri, suocere e nonni, non trovo più Amirah che sembra essere stata inglobata dalla massa. L’unica persona che riesco a intravedere è la sorella minore, che pare totalmente annoiata. Cautamente mi avvicino, sentendo la signora con cui sta parlando, prenderla in giro.
“Dovresti dimagrire cara, sei ingrassata troppo” Amanda sentendo quella frase, si rabbuia, improvvisamente a disagio tra tutta quella gente. Mi faccio spazio tra le ultime persone che sono d’intralcio, fermandomi accanto a lei.
“E lei dovrebbe farsi crescere i capelli, così sembra Gollum, per non parlare della sua dentiera che le sta per cadere” la ragazza al mio fianco rimane sbalordita alle mie parole, spostando lo sguardo da me alla signora che ho di fronte, come se stesse seguendo una partita di ping pong.
“Come si permette” gracchia la signora anziana, appoggiando una mano sul petto altamente offesa. Mentre si allontana rincaro la dose, urlando in mezzo al salotto. “Se ha bisogno di un bravo dentista o altro, chieda pure a me!” Non appena è abbastanza lontana da non importunare più la giovane ragazza, mi rivolgo a lei. “Non ascoltare quello che dice…la frustrazione gioca brutti scherzi nelle persone” le sussurro all’orecchio per farmi sentire, lasciandola nuovamente sola, girando nuovamente per l’enorme salotto. Adocchio Amirah nei pressi della cucina, intenta a parlare con una donna anziana. Avvicinandomi riesco a capire poco di quello che stanno parlando.
“Dov’è il tuo ragazzo?” chiede con voce rauca la signora. Amirah tentenna leggermente, prima di rispondere.
“Non stiamo più insieme nonna” esclama, causando una reazione che mi pare eccessiva. La signora porta le mani tremolanti e raggrinzite al volto, emettendo un verso di sorpresa, non credendo alle parole della nipote.
“Era un bel giovanotto, peccato” sussurra la nonna, storcendo le labbra.
Capendo di non star interrompendo niente di importante, rivelo la mia presenza sfiorandole il fianco, senza però mostrare alcun atteggiamento d’affetto.
Amirah strabuzza gli occhi alla mia vista, deglutendo con forza e deduco subito che solo i suoi sanno di noi due. In quel momento la signora seduta nella carrozzina, si agita.
“Tu, che cosa ci fai in casa mia?!” alla sua frase aggrotto le sopracciglia, non capendo a chi si stia rivolgendo. “Portare questa donna fuori da qui! È il diavolo in persona!” non appena mi punta un dito contro, capisco che stia parlando di me.
“N-nonna…” Amirah tenta di calmarla ma invano. In quell’istante veniamo raggiunti da Gerald che ci si para davanti bloccandoci la visuale.
“Mamma, calmati per favore” dice con voce rotta, cercando di zittirla.
“No, mio nipote..!” urla furiosa, guardandomi come se fossi colpevole della sua morte.
“Non è più qui!” sbraita di rimando il figlio, lasciandosi sopraffare dai singhiozzi. La sua schiena trema mentre mugola addolorato nel silenzio che si è ormai creato. Amirah mi prende per il braccio, allontanandomi cercando di ignorare gli sguardo di tutti i suoi altri parenti.
“Mi dispiace, mia nonna soffre di Alzheimer e ogni volta che invitiamo qualcuno che non ha mai visto alle feste, lo accusa di…” si blocca, non avendo il coraggio di pronunciare quelle parole.
“Aver ucciso tuo fratello maggiore…me ne ha parlato tuo papà” ammetto cautamente, sedendomi sul letto, facendo sposare la coperta appoggiata sul letto. “Perché non hai foto con lui?” chiedo incuriosita dalla sua mancanza nei ritratti di famiglia. “Fa male…i miei fratelli quando lui è morto erano piccoli, quindi non sentono più di tanto la sua mancanza. Io e i miei genitori abbiamo deciso fosse meglio così. Rimuovere la sua presenza per non far soffrire noi che l’abbiamo conosciuto e loro che lo guardavano dal basso verso l’alto come uno sconosciuto, era molto più facile che ricordarci di lui ogni secondo della nostra vita e vedere gli sguardi persi di mio fratello e di mia sorella” sussurra senza versare una lacrima “Fratello e figlio per una parte della famiglia, sconosciuto per l’altra” conclude scrollando le spalle come se questo non la toccasse minimamente.
“Perché non me ne hai parlato?”
Quando io le raccontavo parti della mia vita, lei rimaneva in silenzio ed ascoltava, non aprendosi mai davvero con me, ma nonostante questo, posso dire di essere stata completamente sincera con lei?
“Neanche tu mi hai mai raccontato della tua vita prima di acquisire l’azienda…niente di importante almeno”
“Hai ragione… ci troviamo troppo spesso a litigare o a fare altro” dico dandole ragione, ripensando a cosa le ho detto e no. “Cerchiamo di essere il più sincere possibile d’ora in poi” Amirah sorridere, annuendo d’accordo, lasciandosi andare sul letto con un sospiro.
“Sembri scomoda” dico guardando come è sdraiata. Una gamba distesa verso l’alto e appoggiata al muro, l’altra piegata sotto di essa con le mani incrociate dietro la schiena, schiacciandole con tutto il peso del corpo.
“È una sofferenza che posso sopportare ancora per un po’” risponde ad occhi chiusi, completamente rilassata, aprendoli momentaneamente per guardarmi di sfuggita.
“Se lo dici tu” sussurro di rimando, alzandomi dal materasso solo dopo averle lasciato un bacio sulla fronte. “Dici che possiamo tornare giù?”
“Si, la situazione dovrebbe essersi calmata”
La serata continuò senza più discussioni o litigi, questo fino a mezzanotte, quando a causa di un messaggio, si scatenò il putiferio.
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Who wins? (girlxgirl)
RomanceMiray Tanner, CEO di una delle più grandi aziende automobilistiche del mondo. Conosciuta da tutti per la sua capacità di mantenere in piedi la sua impresa, una volta di suo marito.Tutta la sua vita gira attorno a menzogne, ad un marito morto di cui...