CAPITOLO 1

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Se andaste in giro a chiedere di Miray Tanner, non vi basterebbero tre minuti per sapere tutto della mia vita.
Se chiedete di me, sentireste molte voci girare sul mio conto, molte opinioni differenti, ma nessuna di esse vere. Essere un personaggio pubblico ha i suoi vantaggi, ma anche svantaggi, che molto probabilmente una persona che vive una vita mondana non capirebbe. Ho vissuto tutta la mia infanzia in un quartiere malfamato. La mia adolescenza neppure era quel gran che. Ero sempre in mezzo a rivalità tra gang del posto, droga e prostituzione di ragazzine che a quei tempi avevano tra i dodici e i ventotto anni. Vivevo in una casa che da un momento all'altro poteva cadere a pezzi, con due genitori a cui non importava il fatto che avessero una piccola bambina in casa, che era sempre affamata. Nessuno dei due ha mai lavorato, e quei pochi soldi che in qualche modo riuscivano a guadagnare, probabilmente mia madre si prostituiva, e mio padre faceva affari loschi, li usavano per comprare la droga di cui avevano tanto bisogno. Non saprei quando questa loro dipendenza sia iniziata, forse anche prima che io nascessi, e che è peggiorata negli anni. Sta il fatto che a loro, non è mai importato di me, ne prima ne ora. All'età di soli sedici anni, sono stata costretta a sposare un giovane ragazzo di venticinque. Il semplice motivo era che, i miei due carissimi genitori, avevano un debito da pagare nei confronti di uno dei più grandi impresari del mondo. Non posso dire che gli anni che ho vissuto con Noah siano stati dei miei peggiori, in fin dei conti, nel quartiere che ho vissuto per molto tempo, ho avuto la sfortuna, oppure fortuna, dipende dai punti di vista, di partecipare a scambi di sostanze illecite ed uccisioni a sangue freddo, da esseri umani che dall'esterno sarebbero potuti sembrare persone normali. Mentirei se dicessi di non aver appreso niente da quelle situazioni. Tenere un'arma in mano, oppure nascosta all'interno della giacca quando camminavo per quelle strade, era una cosa normale per me. Mi è capitato a volte di sparare nel buio della notte, quando sentivo la presenza di una persona avvicinarsi con brutte intenzioni, ma non saprei dire se abbia mai ferito oppure ucciso qualcuno. In quei momenti precari, in cui impugnavo l'arma fredda, i miei unici pensieri erano quelli di rimanere viva e di non essere toccata da mani che avrebbero potuto fare quello che volevano con il mio corpo, in fondo, al telegiornale nessuno parlava di quello che succedeva nel mio quartiere. Era pressoché impossibile vedere giornalisti girare per le strade buche e maltenute. Vivendo lì, ho imparato ad impugnare un'arma, a sparare e a fare affari, la quale quest'ultima mi è tornata molto utile rispetto alle altre. Sposarsi a sedici anni non è il massimo, soprattutto per chi pensa di trovare il vero amore, e vivere tutta la vita con loro. Per me invece, sposarsi a quell'età era solo un contratto. Un contratto in cui i miei genitori avrebbero saldato il loro debito, ed io mi sarei potuta allontanare il più lontano possibile da quel luogo. Nei primi anni, mio marito Noah, mi trattava sempre con rispetto, non ha mai alzato un dito nei miei confronti. Era sempre calmo e rispettoso, come suo padre. Persi la verginità quando compì diciotto anni. Pensai che fosse il momento giusto di dedicarmi a Noah anche se non lo amavo, credendo che fosse un uomo onesto e di cui mi potevo fidare; ma mi sbagliavo. Le cose cambiarono quando sua madre tradì suo padre, che morì qualche tempo dopo a causa di un cancro al fegato. Divenne così il CEO di una delle più grandi imprese automobilistiche di tutti i tempi. Lavorava talmente tanto per far sì che il lascito di suo padre non fallisse nelle sue mani, che tornava sempre a casa tardi, stressato ed arrabbiato, sfogando la sua frustrazione su di me. Riuscivo a sopportare il suo sguardo freddo e senza emozioni. Riuscivo a sopportare le sue mani ruvide che mi toccavano, solo con il mio consenso, senza rispetto come prima. Riuscivo a sopportare anche le parole pesanti che scagliava contro me. Ma quello che non riuscivo a sopportare era essere trattata come un oggetto, che non aveva diritto di parlare oppure disobbedire. Non sopportavo l'idea che un'altra persona, come i miei genitori, mi trattasse come se fossi spazzatura da buttar via. Non potevo più avere accanto a me una persona che abusava di me fisicamente.
Uscivo di casa di nascosto, con segni violacei che segnavano il mio corpo. Avevo quasi sempre il labbro spaccato a causa delle botte che subivo la sera prima. A malapena camminavo, non riuscendo a sentire più le gambe per i suoi maltrattamenti. Se avessi avuto qualche amica con cui confidarmi, forse sarebbe stato tutto diverso, avrei fatto scelte diverse, oppure, avrei solo fatto finta di niente, e avrei continuato con le mie idee. Ma alla fine dei conti, ciò che è fatto è fatto. Ormai il passato è passato, e ciò che sto vivendo ora è il presente. Miray Tanner, non è più lo zerbino di nessuno, è solo una vedova che tiene in piedi l'impresa del marito defunto, di cui non si trova il corpo. È una delle tante vedove che vive senza avere accanto un uomo. È il CEO dal passato nascosto; e soprattutto è il CEO dal presente calcolato e dal futuro puramente casuale secondo alcuni.
                                                                                         ***
Sorseggio la bevanda all'interno del bicchiere di vetro, contemplando la città sotto di me. Ho sempre amato New York, con i suoi grandi grattaceli, che danno l'impressione di raggiungere lo spazio, e le tante persone che si muovono per conto loro senza prestare attenzione agli altri. La sede principale dell'impresa è proprio al centro di questa enorme città. L’edificio si innalza per almeno novanta piani, superando tutti gli altri grattacieli che si trovano attorno. Ho sempre avuto l’impressione che la famiglia Strandford fosse un insieme di egocentrici, che desideravano solo essere superiore agli altri, e questo edifico ne è la prova. È elegante da fuori, fatto solo di vetrate che rifletto i raggi di sole che si scontrano con essi e la luce della luna che di notte filtra quel poco che basta per permettermi di lavorare quando rimango in ufficio fino a tardi. L'ufficio principale dove risiede il CEO si trova all'ultimo piano, dove è possibile ammirare tutta New York quando si vuole, nonostante ci siamo anche altri grattacieli che offuscano la vista di alcune parti della città. Le poche pareti che ci sono, hanno un colore tendente al grigio, oscurando l'ambiente e rendendolo a mio personale gusto, rilassante ed accogliente per chi si sente come me in luoghi bui. Dietro alla scrivania, posta nel lato destro della stanza, si innalza uno scaffale pieno di libri, che vanno da manuali tecnici, di economia a libri erotici tanto apprezzati da tutti quelli che si siedono di fronte a me. Piccoli modellini di macchine e di sue componenti, sono poste sulla scrivania e in giro per l'ufficio, rendendo l'atmosfera meno cupa per chi non riesce a sopportare l’oscurità da cui mi sento tanto amata. Dal mio ufficio riesco a vedere la mia segretaria seduta nella sua postazione accanto agli ascensori.; è importante avere sott’occhio che lavora per me e soprattutto chi entra ed esce.
Sono momentaneamente in piedi che riempio il bicchiere con un po' di whiskey, avendo svuotato il calice precedente, canticchiando lentamente una canzone lenta. Il telefono dell'ufficio che squilla, porge fine alle mie azioni, costringendomi a smettere di sorseggiare la bevanda alcolica che stavo altamente gtadendo. Riporgo la bottiglia sul piccolo tavolino, accanto al bicchiere, dirigendomi verso l'enorme scrivania con passo cadenzato. Alzo la cornetta del telefono, rispondendo alla mia segretaria personale. "Dimmi." giocherello con una penna, aspettando che mi spieghi per quale motivo mi abbia interrotta.
“Signora Tanner, scusi per l'interruzione, ma il signor Collins la sta cercando.” sbuffo infastidita dalla persistenza di quell'uomo, picchiettando le dita sul tavolo spazientita.
"Lo faccia salire." chiudo la telefonata, senza aspettare che dica altro. Mi siedo sulla poltrona di pelle accavallando le gambe, firmando i diversi contratti che ho poggiati di fronte a me, per niente intenzionata ad interrompere il mio lavoro per qualcuno di inutile per me e la mia azienda. Leggo le proposte che mi hanno mandato diversi impresari, rifiutando ognuna di esse con assoluta calma. Sento voci che gridano con prepotenza fuori dal mio ufficio, portandomi a chiudere gli occhi, stanca di sentire la sua fastidiosa voce. Le enormi porte vengo aperte con forza, mostrando un signor Collins alterato, e la mia segretaria che cerca di farlo uscire con sguardo preoccupato e pieno di scuse. Alzo la mano segnalando a Melissa di lasciarlo stare, non avendo intenzione di creare scompiglio nella mia azienda a quest’ora del giorno. Uscendo chiude la porta dietro di sé, lasciando Collins fermo in piedi che mi osserva con sguardo furioso e le mani strette a pugni accanto ai fianchi.
"Che cosa vuole? Non ho intenzione di stare qui e parlare di cose futili." si avvicina con passo pesante, posizionandosi di fronte alla mia scrivania, appoggiando i palmi delle mani sicuramente sudati di fronte alle mie braccia incrociate sul legno in cui lavoro ormai da anni.
“Le ho mandato una proposta da ormai settimane, e lei non mi ha ancora risposto!” sorrido cinica alle sue parole, alzandomi dalla poltrona con disinvoltura, rilasciando un sospiro.
"Vede, è arrivato proprio in tempo. Stavo giusto leggendo la sua proposta, e devo dire che mi ha colpito." lo sguardo speranzoso di Collins mi diverte ancora di più, non riuscendo a trattenere un sorriso sardonico. "Fa proprio schifo. È peggio delle altre proposte che lei mi ha fatto. Non accetterò mai un'offerta del genere." prendo il contratto mandatomi da lui, strappandolo sotto il suo sguardo incredulo. “Adesso le ho risposto, può uscire." Il suo viso diventa paonazzo dall'umiliazione mentre stringe la mandibola con forza, così tanto che riesco a sentire i suoi dentro digrignare fra di loro. Mi risiedo nella mia poltrona, chiamando la sicurezza premendo un pulsante sotto alla scrivania. Nei lunghi cinque minuti in cui la sicurezza deve raggiungere il piano in cui si trova il mio ufficio, l'impresario più inutile che abbia mai conosciuto, sbraita contrario alla mia scelta, sputando profanazioni senza riuscire però a farmi cambiare idea. Appena viene portato via da qui, leggo gli ultimo contratti, rifiutandoli tutti con un movimento veloce delle mani, chiamando poi Melissa.
"Tieni questi fogli e mandali a chi devono essere mandati. Adesso devo andare, tornerò tra qualche ora." prendo il cappotto appoggiato sul divano in pelle, anch'esso nero, avviandomi verso la porta con passo veloce, volendo solo uscire a prendere una boccata d’aria.
“Signora, è arrivato un altro contratto. L'ultimo della mattinata.” la voce squillante di Melissa, mi fa tornare indietro con uno sbuffo. Mi porge diversi fogli spillati insieme, scritti elegantemente al computer, nel frattempo che cerco di rilassare le spalle irrigidite.
"A.A entertainment...non ne ho mai sentito parlare." sussurro rimanendo colpita dalle capacità produttive e finanziarie dell’azienda, corrugando la fronte non capendo da dove sia apparsa. Lavorare nel mondo delle imprese comporta conoscere tutte le aziende sia avversarie che possibili collaboratori, e solo il fatto che non mi sia accorta di questa, mi rende nervosa, infastidendomi più che mai.
“È appena nata come impresa signora.” annuisco, non mostrando il mio stupore davanti a Melissa.
“Quindi una donna sarebbe il CEO di questa azienda…non siamo in tante ad avere potere in questo mondo.” sussurro mettendo il cappotto sulle spalle, tenendo i fogli in mano. "Grazie Melissa, puoi andare. Manderò io stessa la risposta alla signora."
“Alla signorina. Ha appena ventidue anni.” mi corregge la mia segretaria. La guardo negli occhi, cercando di trovare un minimo di divertimento nel suo sguardo, ma senza successo. Le rivolgo un mezzo sorriso, congedandola velocemente, continuando a cercare di non mostrare alcun tipo di sentimento. Salgo nel mio ascensore privato, schiacciando il pulsante per raggiungere la mia auto nei parcheggi sotterranei, con una sola domanda in testa; come ha fatto ad arrivare fino a questo punto senza l’aiuto di nessuno? Appena le porte si aprono mi incammino verso la mia auto, salutando i diversi impiegati che se ne stanno andando come me. Tiro fuori le chiavi dalla tasca del mio cappotto, aprendo l'audi r8 nera opaca davanti ai miei occhi, mentre la ammiro. Entro, sedendomi sui sedili in pelle, annusando il dolce profumo che mi circonda, chiudendo gli occhi per qualche secondo, mentre stendo il collo sul poggia testa. Lascio i fogli consegnatomi dalla mia segretaria poco fa sul sedile del passeggero, accarezzando le iniziali del nome della mia potenziale socia con la punta delle dita, con stampato in viso un mezzo sorriso "Ci sarà da divertirsi."
Sfreccio per le strade trafficate di New York, raggiungendo in mezz'ora la mia enorme villa. Allungo le braccia verso l’alto stendendo i muscoli contratti della schiena, ansimando non appena sento tutta la tensione lasciare il mio corpo. Impossibilitata dal poco spazio dell’abitacolo, non riesco ad allungare anche le gambe in preda ai crampi. Accarezzando il volante ripenso alla donna di cui prima ho discusso velocemente con la mia segretaria. Volendo accordarmi con la signorina in questione del contratto, prendo il telefono, chiamando Melissa che probabilmente sarà ancora a lavoro .
“Pronto signora?”
"Contatta la signorina e fissa un appuntamento con lei per domani se possibile." comando autoritaria, aspettando una risposta positiva da parte sua. Appena finisco di parlare chiudo la telefonata, non avendo troppo tempo da perdere. Scendo dalla macchina salutando con un cenno del capo i ragazzi della sicurezza, entrando in casa. Non appena varco la soglia, la prima cosa che faccio è togliere il cappotto, lasciandolo sulla sedia in salotto, riempiendo un bicchiere con del vino rosso conservato con attenzione. Accendo il televisore di 60" pollici in salotto, ascoltando il notiziario che viene ripetuto sempre nello stesso orario. Come al solito i giornalisti parlano della morte di mio marito, e di come mi abbia lasciata sola a dirigere tutta la sua azienda, per loro troppo grande per una donna che sta ancora soffrendo. Quei poveri illusi pensano che io sia una donna indifesa e che mi senta sola senza di lui; non mi conoscono proprio. In un senso è meglio così, in questo modo non vanno a ficcare il naso nel mio passato e in faccende che non gli riguardano. Bevo a piccoli sorsi il vino pregiato, beandomi del suo sapore dolce, guardando gli occhi di una persona ormai non esiste più. Sprofondo nel divano, sentendo la pelle avvolgermi, una carezza troppo delicata per un copro che per anni non ha conosciuto altro che pesantezza e tocchi ruvidi.
“Sono passati ormai quattro anni dalla sua scomparsa, ed il suo corpo non è ancora stato trovato...” osservo con un ghigno la foto di Noah sul telegiornale, ascoltando le parole del giornalista, sentendomi finalmente libera. Un problema in meno che mi rende la vita molto più leggera di quanto non lo era quando vivevo ancora con lui.
"Non ti troveranno mai amore mio." sussurro continuando a guardarlo. Sollevo il calice verso l'alto brindando con il suo animo che marcisce all'inferno.
"Te lo sei meritato."

Who wins? (girlxgirl) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora