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All'arrivo io ero l'unica ad essere rimasta sveglia.

Ci condussero nella sala d'attesa mentre aspettavamo di sapere come stesse Nathan.
Cercai di non pensare a mio zio.

Ci provai con tutta me stessa, ma i ricordi mi assalivano.
Quante volte ero passata per quei corridoi per andare a trovarlo?
Non abbastanza, mi ripetei.

Infermieri camminavano velocemente sopra le lucide piastrelle bianche e alcuni pazienti si sgranchivano le gambe prima di tornare a letto.
Era un ambiente opprimente e angosciante, lo odiavo.

Jake sembrava esausto e sicuramente aveva un gran mal di testa, Leda cercava di distrarsi giocando con i suoi pollici.

-Forse è meglio se tornate a casa.- Suggerì notando la faccia pallida del ragazzo, ma lui scosse impercettibilmente la testa.

-Aspettatemi qui.- Dissi alzandomi goffamente e dirigendomi verso la macchinetta automatica, avevo un disperato bisogno di sgranchirmi le gambe.

Come se muovermi potesse farmi scivolare di dosso quella sensazione di oppressione che mi premeva sul petto.

Avevo giusto qualche dollaro in tasca, ma bastarono per prendere due barrette alla frutta.

Tornai dagli altri sfregandomi gli occhi.
Non sapevo se si fossero arrossati per il pianto o per le fastidiose luci fredde del corridoio.

Mi sedetti vicino a Jake per poi porgergli una barretta. -Hai perso molto sangue, mangia un po'.- Conclusi quando l'afferrò scettico.

Porsi l'altra alla mia amica che mi guardò grata. -Facciamo metà.- Propose spezzandola e porgendomene un pezzo.

Cominciammo a mangiare in silenzio, io appoggiata alla spalla di Jake e Leda alla mia.
Il ragazzo ci avvolse entrambe con un braccio come per tranquillizzarci, la mia amica sembrò apprezzarlo.

Per la prima volta lo guardò con occhi diversi.

Un uomo dal camice bianco ci venne incontro. Aveva un paio di grossi occhiali tondi davanti ai piccoli occhi scuri e dei capelli lunghi e bianchi legati in un codino.

Si accarezzò il pizzetto curato osservando la cartella clinica che teneva in mano.
-Conoscete un certo Petit Nathan?-

Leda si drizzò a sedere. -Sì, come sta?-

L'uomo sembrò un po' infastidito da quell'improvvisa attenzione. -Il suo zigomo destro è fratturato e andrà operato, ma sarà fuori di qui in massimo tre o quattro giorni.-

-Quando sarà l'operazione?-

-Se ci confermano la presenza del chirurgo apposito, si dovrebbe tenere domani verso il tardo pomeriggio.-

Il dottore si schiarì la gola sistemandosi gli occhiali sul naso.

-Lui lo sa già?- Chiesi sporgendomi verso di lui che annuì. -Possiamo vederlo?- Leda guardò l'uomo con fare supplicante.

-Sì, certo, venite.- E detto ciò si voltò senza neanche aspettarci. Feci alzare Jake con cautela per poi seguire il dottore e Leda per i corridoi.

-Ti gira la testa?- Chiesi al ragazzo al mio fianco.

-Poco, posso camminare.- Disse aggrappandosi al mio braccio per farsi condurre.

Girammo un paio d'angoli prima di fermarci davanti a una porta bianca, l'uomo l'aprì piano e Leda ci si tuffò dentro.

Prima di entrare feci un lungo sospiro, poi feci il passo decisivo.

All'interno la stanza era illuminata solo dalla piccola bajour sul comodino affianco al lettino su cui era adagiato Nathan.

Ci avvicinammo tutti con cautela, il ragazzo aprì gli occhi. -Ehi...- Accennò un sorriso storto. Leda corse al suo fianco con gli occhi lucidi.

Il ragazzo aveva un occhio completamente nero, un labbro spaccato e lo zigomo destro gonfio e violaceo, eppure sorrideva.

-Stai bene?- Chiese alla ragazza osservandola attentamente, lei annuì prima di sprofondare il viso nell'incavo del collo del ragazzo abbracciandolo.

Non si dissero nulla rimanendo stretti l'uno all'altro e io mi sentii veramente di troppo. Strinsi la mano di Jake che mi cinse la vita, non serviva vedere per immaginare la scena.

Sentii la pelle d'oca al contatto.

Tornammo all'esterno della stanza.
-Com'è messo?- Mi chiese il ragazzo a bassa voce una volta richiusa la porta.

Gli sfilai attentamente i fazzolettini dal naso, la perdita di sangue si era fermata.
-Come uno che è appena stato picchiato.- Scherzai e Jake fece una smorfia.

-Che simpatica.- Sbuffò.

-Vuoi uscire a prendere un po' d'aria?- Proposi sentendo l'ambiente opprimente.
-Sì.- Mormorò.

All'esterno tirava una leggera brezza fresca e piacevole. Ci sedemmo su una panchina sul piccolo terrazzino collegato al corridoio, mi misi ad osservare le poche stelle che si riuscivano a scorgere nel cielo nuvoloso.

-Ti fa male dove ti ha colpito?- Chiesi a bassa voce osservando il suo naso arrossato e la camicia macchiata.

-Il dolore sta sparendo, direi che sta peggio il tuo amico.- Disse in un sussurro respirando profondamente, istintivamente gli lasciai un piccolo bacio sulla guancia, lui voltò il viso nella direzione opposta alla mia.

Il suo braccio mi cinse le spalle tirandomi a lui, intravidi le sue guance arrossate.

Gli amici lo fanno, gli amici lo fanno.

Rimanemmo in silenzio, ascoltando il rumore delle macchine percorrere la strada davanti a noi.

-Non sapevo dei tuoi genitori.- Enunciò d'un tratto.

-Ho sentito tuo fratello, al funerale.- Schiuse gli occhi osservando il firmamento, strinsi le labbra abbassando lo sguardo.

-Me li ricordo in modo molto sfocato, ero piccola al tempo dell'incidente.- Gli confidai.

Quando la loro memoria mi affiorava alla mente una calda e dolce sensazione si espandeva nel cuore riversandosi nelle vene e percorrendo ogni millimetro del mio corpo.

E non potevo fare altro che piegare le labbra in un sorriso.

-Come ti sei sentito?- Lo sentii abbassare di poco il viso.

-Come ti sei sentito quando ti sei svegliato e... e Thomas non c'era più?- Riformulai con voce appena udibile, come se così facendo rendessi la domanda meno gravosa.

Lui non emise un suono.

Sentii la stretta attorno alla mia mano farsi più acuta, l'altro braccio mi avvolse le spalle.

Mi pentii di quella domanda, come si doveva essere sentito dopotutto?

Lui aveva avuto Thomas come io avevo Leda. E Nathan. E Gareth.

-Perso.- Mormorò poi.
Non aggiunse altro, non serviva.

Alzai il volto per ammirare il suo che, piegato verso di me, teneva gli occhi affusolati semi aperti.

-Scusa.- Sussurrai e mi abbandonai su di lui.

Lasciai che mi avvolse in un abbraccio definitivo, che mi stringesse fino a farmi mancare l'aria.

Fu strano, vederlo piangere.

Non un pianto eccessivo, si contenne persino in quell'istante.

Ma durò abbastanza da permettermi di vedere le sue guance farsi totalmente umide.

Durò abbastanza da permettermi di asciugargliele con il palmo della mano, senza accorgermi di come i miei occhi stessero imitando i suoi.

La LucciolaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora