CAPITOLO 2

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 Tommy used to work on the docks


C'era una volta la casa di Marco.

"A Muggiò, nella via dopo le scuole, due passi dalla villa dei miei genitori dove ora abita mia sorella," avrebbe spiegato con precisione.

Dove si sentisse a casa era ormai un'altra questione, che risaliva a un tempo dimenticato. A quando l'ora di cena era ancora un concetto fluido, non cristallizzato sulle otto e un quarto e guai a tardare. Quando mangiare sul divano non era la fine del mondo. Quando poteva vedere un film vietato ai minori di quattordici, o un qualunque film, purché fino alla fine senza addormentarsi. Quando casa era un luogo organizzato, con appendini per le giacche di ciascuno all'ingresso e non disseminate ovunque, gli asciugamani riposti in ordine di colore nei cassetti del bagno e non a casaccio sullo stendino, i vetri delle finestre puliti e non marchiati da aloni unti di patatine e inchiostri. Quando Claudia lo accoglieva con un sorriso e un bicchiere di vino, e lui le regalava una sottoveste di pizzo nero. Quando gli chiedeva ancora: "Com'è andata oggi?", lui rispondeva: "Bene", ma lei lo guardava un secondo più di tutti gli altri e capiva: "Uno schifo, eh? Vieni, so io come rimediare", e lo portava in camera da letto.

Un tempo dimenticato al quale Marco aveva detto addio senza rendersene conto, never say goodbye erano diventate nient'altro che parole su un cd impolverato.

Eppure aveva tutto. Un invidiabile appartamento, moglie e figli, ruolo di dirigente, automobile aziendale, orologio nuovo al polso, conoscenze di architettura o meccanica che da sempre lo affascinavano, continui viaggi in giro per l'Europa.

"Se non fossi così bravo, saresti insopportabile," aveva detto Santini, un collega giovane così testardo al punto da meritarsi in soli tre mesi il soprannome 'Caterpillar'.

Era andato nell'ufficio di Benvisi sul piede di guerra, convinto di coglierlo in fallo per un errore che risultò essere stato commesso da un altro. Marco aveva invitato Caterpillar a sedersi, lo aveva ascoltato con interesse, mantenuto il tono di voce tranquillo e pacato per cui era noto e dimostrato di avere come al solito tutto sotto controllo. Perfino quando fu identificato il responsabile dell'errore, aveva fatto di meglio che puntare il dito sul colpevole, al contrario di Santini e gli altri: aveva elaborato una strategia per migliorare il processo e impedire che l'errore si ripetesse.

Alla fine Caterpillar si era congratulato, nonostante l'altro affermasse che non c'era niente da riconoscergli, e quella sera all'aperitivo con gli altri ammise che sì, Marco Benvisi era l'uomo giusto al posto giusto e meritava le fortune che aveva.

Da allora e fino al giorno in cui cambiò lavoro, Caterpillar fece come molti altri: si recò spesso da lui per scambiare opinioni, chiedere aiuto e veniva ascoltato senza dover contraccambiare la fatica. Perché al centro della conversazione Marco non ci si metteva mai.

Santini e molti altri nella fretta non ci facevano caso e davano per scontato che fosse una roccia che nulla avrebbe abbattuto.

"Forse questa volta mi abbatteranno."

Marco scosse la testa con forza per scacciare il pensiero e slacciò la cravatta. Gli dava sollievo, anche se non più come qualche anno fa: c'era sempre un cappio che stringeva senza tregua.

Richiuse la valigia, sistemò computer e documenti sul tavolo in modo che fossero allineati al muro, due penne rigorosamente blu parallele ai fogli. Nella camera d'albergo c'era un telefono, il suo cellulare però aveva un tasto di chiamata veloce.

«Pronto?»

«Ciao Lia, sono io. La stanza è di tuo gusto?»

Lia Merlani era sua collaboratrice da quasi tre anni, il migliore braccio destro che poteva desiderare di avere accanto a Roma, alla vigilia del giorno più terribile della vita lavorativa.

«La vista è bella,» rispose Lia. «E nella tua?»

«Sì.» Nemmeno aveva toccato le tende della camera. Perché perdere tempo a guardare il pigro Tevere adagiato lungo le strade e attraversato di tanto in tanto da un ponte? L'aveva già visto altre volte. «Domattina a che ora abbiamo il taxi?»

«Otto e trenta. Alla Mida vogliono iniziare alle nove. Rivediamo i punti per domani?»

«Vai a divertirti un po'. Siamo pur sempre a Roma.» Si sentiva come uno zio anziano che invita la nipote giovane e bella a godere di una vita che per lui ormai è passata.

«Possiamo ripassare rapidamente a cena» insistette Lia.

Marco la conosceva, poteva immaginare come avesse trascorso il tempo da quando l'audit alla Mida Farmaceutici S.p.A. era stato fissato: lavorando, preparando, programmando. Lui aveva fatto lo stesso, e pregato parecchio. Non pregava granché dalla morte di sua madre.

«Più di così non puoi fare oggi, Lia. Domani inizierà l'ispezione» "lo scontro", «dobbiamo riposarci.»

«A patto che neanche tu lavori stasera.»

Una risatina forzata, accompagnata da tristi fossette. «Come puoi credere che mi metta a lavorare in questa splendida città? Ho compere da fare per i bambini e, beh, per mia moglie.» Intanto accendeva il computer e apriva una cartella sul desktop chiamata "ispezione Mida".

Due ore dopo Marco era ancora in camera. Dopo aver lavorato un po', aveva ceduto a una breve pennichella.

Soffriva ormai di un sonno frammentario e inquieto, incomprensibile rispetto alla vita tranquilla e routinaria che conduceva. Da sotto qualsiasi materasso, cuscino o sedile su cui si appoggiava, d'un tratto una lama spuntava e affondava fino a svegliarlo di soprassalto, lasciandolo ogni giorno un po' più stremato del precedente. Cercava rifugio in frammentari inutili sonnellini dove capitava: prima di scendere dall'auto appena parcheggiata in garage, sul divano dopo cena, ovunque capitasse la domenica.

Anche in albergo non dovette aspettare il trillo del cellulare: la lama tornò, un coltellaccio da macellaio dritto nei lombari. La sveglia lo trovò già seduto con la schiena incurvata e le mani sulle reni, le palpebre strizzate a ripetizione.

Il medico del lavoro qualche mese prima gli aveva suggerito degli occhiali.

«A quarantacinque anni non si è vecchi!» disse ad alta voce.

Nella camera d'albergo nessuno poteva contestare la sua decisione. Dal medico invece si era limitato a un brontolio vago che poteva valere allo stesso tempo come un sì o come un no.

Giocherellò qualche minuto con il cellulare senza leggere le notizie che scorrevano sotto il suo pollice. Quando alla fine si alzò, il cuscino di piume, che gli ospiti dell'albergo trovavano tanto di gradimento, sbuffò affossato nel lasciarlo andare. La moquette frusciava indifferente sotto i suoi piedi, dalla finestra il Tevere e più in là San Pietro tagliavano imponenti l'orizzonte di case e palazzi. Marco socchiuse il vetro dagli infissi restaurati di recente, lo smog e il chiasso della capitale lo aggredirono insieme all'aria tiepida dell'autunno. Detestava Roma: così frenetica e colorata e ricca e maestosa, troppo perché le importasse davvero di qualcosa o qualcuno. A sua moglie invece sarebbe piaciuta.

«Wish I could read your mind, Claudia. Move up or out of the line» mormorò al vento. «Oh, beh. Too late for praying

Chiuse la finestra con forza.



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Le citazioni in questo capitolo sono:

Mai dire addio (Never say goodbye).


Vorrei poterti leggere nella mente. Vai avanti o fatti da parte. Troppo tardi per pregare (Roller Coaster). 

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