Capitolo XXVII - Bright Star

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Bright star, would I were steadfast as thou art -
Not in lone splendour hung aloft the night,
And watching, with eternal lids apart,
Like nature's patient, sleepless Eremite

The moving waters at their priestlike task
Of pure ablution round earth's human shores,
Or gazing on the new soft fallen mask
Of snow upon the mountains, and the moors(2).

(J. Keats, Bright Star)

La pietra di fondazione di Westminster era stata posata nel 1045, sui terreni donati da re Edoardo ai benedettini. Prima d'allora, prima anche del convento creatovi da San Dunstano, vi era stato un austero santuario dedicato a San Pietro.
Il santuario era stato eretto su una delle piccole isole che affioravano dalla corrente del Tamigi, alla confluenza di uno dei corsi d'acqua che ingrossavano il fiume prima del suo sbocco nel gelido Mare del Nord.
Come tante altre isole, era destinata a scomparire, soffocata dall'accumularsi di sedimenti.
Su quell'isolotto un pescatore aveva avuto una visione di S. Pietro e da quel momento il culto del santo aveva mutato la storia di Thorney Island(3).
In precedenza non si era trattato che di una manciata di terra fra i flutti, terra e rovi che avevano offerto rifugio a criminali, pirati, schiavi od amanti in fuga. La terra molle ed odorosa di Thorney Island si era bagnata di sangue, di sospiri, di versi di poesia latina; uno stormo di tordi, anno dopo anno, aveva nidificato sugli alberi ritorti, fra le spine curve ed i tralci marcescenti.
Ma, quando ancora nessun cristiano aveva posato il proprio piede su suolo inglese, quando ancora le insegne di Roma non erano esposte alle porte di Londinium, Thorney Island era stata terra dei Britanni.
Ed erano stati i Britanni ad erigere, al confine segnato dal fiume fra il territorio d'una tribù e l'altra, steli di pietra in memoria dei propri dei. Salvo poi abbandonare a se stessa quell'isola, dove nessuno sforzo sembrava poter sconfiggere il rigoglio dei rovi e già questi cingevano le pietre da ogni parte, come ghirlande, ghirlande che beffavano la volontà umana.

Eppure non furono i rovi, e non furono le pietre che ne erano adorne e soffocate, che Hermione Granger vide.
Per prima cosa, vide le stelle.
Innumerevoli stelle, come ricordava d'averle ammirate sul soffitto della grande sala ad Hogwarts. Innumerevoli stelle, come quelli che brillavano sopra la sua testa, quella di Harry e quella di Ron nelle interminabili notti della loro fuga e ricerca, mentre Voldemort si impadroniva del Ministero della Magia.
Innumerevoli stelle, quante aveva cercato di contarne dalle finestre della Tana, una notte di molto tempo prima.

Sotto i piedi, invece: il fango.
La consapevolezza che i suoi stivali affondavano nella terra umida le fece balzare alla mente il ricordo del proprio risveglio nel 1848.
Dunque, una volta ancora tutto sarebbe cominciato dal fango?
Se c'era il fango, doveva esserci anche la solitudine?
Era stata nuovamente spazzata via da un'epoca e da un luogo, gettata altrove come uno straccio nella corrente, esiliata da ciò che le era caro?
Questa volta però non era distesa a terra, non aveva gli abiti umidi e putridi. Non c'era odore di cavoli bolliti e marciume, né le pareti anguste d'un vicolo a precluderle la vista.
Non sono sola.
Non ricordava notte più luminosa, più palpitante, che pareva sul punto di esplodere sopra la sua testa. Mentre sotto, sotto la sua testa, c'era il braccio di Malfoy che le circondava le spalle, proprio come aveva fatto mentre Westminster precipitava su di loro.

Non che fosse davvero crollata.
Le pietre, i pilastri, i capitelli e le balaustre, i costoloni delle volte e le vetrate dei rosoni: niente di tutto questo si era infranto dopo una terribile caduta o aveva cercato di schiacciarli. Non di crollo si era trattato, ma di un dissolversi silenzioso, di uno sbriciolarsi che sembrava partire dall'interno, come se l'abbazia risucchiasse se stessa, atomo dopo atomo.
Negli spazi lasciati vuoti dalla pietra che implodeva e si dissolveva, non era stata Londra ad affacciarsi. Non la città ottocentesca, con i suoi ori ed i suoi miasmi, con le strade aristocratiche e l'arrampicarsi di fumi e miserie. E nemmeno l'altra Londra, quella del ventesimo secolo, la metropoli rumorosa ed affascinante nel cui cuore ancora si schiudeva una porta per il Mondo dei Maghi.
No, man mano che Westminster si accartocciava e si ritraeva in se stessa, quello che balenava oltre le pareti ormai disfatte era un paesaggio nuovo, sconfinato. Una terra buia ed odorosa, un cielo d'inchiostro su cui erano gettate stelle di straordinaria luminosità, ed acqua intorno, che scorreva nel buio e lasciava nell'aria una frescura piacevole, ristoratrice.
Quanto tempo era trascorso? Minuti, non potevano essere che minuti quelli durante i quali Hermione Granger e Malfoy erano rimasti abbracciati.
Era stata la reazione istintiva.
Non erano fuggiti, non avevano tentato di smaterializzarsi, non avevano alzato le bacchette contro qualcosa che ancora non riuscivano a capire. Lo spettacolo dell'abbazia in disfacimento era stato spaventoso, ma non minaccioso.
E si erano ritrovati a sorreggersi a vicenda, mentre lo spazio intorno mutava in ogni aspetto. Nel silenzio di quella rivoluzione, Hermione aveva nascosto il viso contro il torace del ragazzo e lui le aveva passato il braccio sulle spalle, premendo appena sulla nuca della strega.
Ora, però, la Gryffindor storse un poco il collo ed espose il viso all'aria fresca. Sbatté le palpebre e la luminosità del cielo notturno le mozzò il fiato. Vide prima le stelle, e quindi il profilo pallido di Draco, vicinissimo. Tornò a piegare il volto e premette la fronte contro la spalla del giovane mago.
- Siamo vivi? –
- Sì, credo di sì, Mudblood
- Dove siamo? –
Malfoy alzò il capo e fece scorrere gli occhi grigi all'intorno. Dovevano essere su una piccola isola, o qualche lembo di terra proteso nella corrente di un fiume. Lo sentiva scorrere tutto intorno, per quanto non ne cogliesse che il riverbero d'argento ed oro, oltre il fogliame.
Era pieno di rovi, rovi e foglie morbide, lì attorno. Anche l'erba era alta e loro vi affondavano fino al ginocchio. Sotto i piedi, un terreno cedevole, che pareva doversi disfare nella corrente da un momento all'altro.
- Non ne ho la più pallida idea. Non a Westminster, in ogni caso –
Con un movimento cauto e delicato, il giovane Lord allentò l'abbraccio per dare modo anche alla strega di osservare ciò che li circondava. Solo allora Hermione notò le grosse pietre, alcune riverse fra l'erba, altre ancora in piedi, ma avvolte dalla vegetazione ostinata, screziate di muschio e di escrementi. Rilucevano a tratti, nella notte stellata.
L'impressione era di qualcosa di abbandonato.
Non c'erano segni di distruzione, ma soltanto quel declino, più simile ad un torpore che ad una fine priva di speranze. La superficie d'alcune pietre era scalfita e, ad uno sguardo più attento, i graffi si componevano in nugoli di rune.
- Un tempio? – chiese Hermione, in un soffio.
- Qualcosa di simile –
- E' opera dei Gargoyles? –
- A questo punto me lo auguro –
- Lumos
Dalla bacchetta della ragazza scaturì il noto riverbero azzurro.
Se ne sentì immediatamente rassicurata, mentre il timore di ritrovarsi ancora una volta senza una bacchetta funzionante si dissipava nella luce bluastra.
Al limite di quell'alone, però...
- ...Mudblood, maledizione! – sbottò Draco, strattonandola per farla retrocedere e portandosi col corpo a protezione del suo, la bacchetta già alta.
Perché, proprio al limite del cono di luce proiettato dalla bacchetta della strega, c'era lui.

Gargoyle - Beneath the StoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora