10 - Manipolazioni

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Tammy non riuscì a prendere sonno per l'ennesima notte consecutiva. Dormiva solo per qualche ora per poi risvegliarsi sudata ed anelante in preda a spasmi dovuti alle conseguenze di ciò che i suoi traumi le mostravano ogni volta che l'oscurità calava. Gli incubi la perseguitavano cacciando via ogni singolo pezzetto di ciò che ne restava della normalità. Stavano braccando la sua luce, nutrendosi delle sue speranze e di ogni parvenza di vitalità; lei non era altro che la loro preda. Ogni qualvolta che chiudeva gli occhi sprofondava in una fossa che man mano si andava scavando sempre di più, pronta a seppellirla viva in un feretro con il suo nome inciso sopra dal fato crudele. La pace non era altro che un concetto caduco, irraggiungibile. Ineffabile quant'era, sarebbe finita presto tra le braccia dell'alienazione. In preda alla follia, persa nell'oceano della solitudine. Nessun altro oltre lei poteva evitarlo, nessuno poteva rallentare il processo, mentre invece c'era qualcuno ben oltre in grado di accelerarlo, e lei avrebbe dovuto in qualche modo impedirlo. Se solo fosse stato facile.
Quella mattina avrebbe dovuto prendere parte ad uno studio che secondo i medici del posto era molto importante. Le parole di Peter le rimbombavano in testa come un eco, facendola riflettere. Creava conversazioni con la sua immaginazione, pensando a cosa avrebbe potuto dirle: "è la prova cruciale, Tammy, il male minore". Se lo sarebbe immaginata proprio così, avanzare a passi solenni verso di lei e guardarla dall'alto del suo piedistallo di vetro con i suoi occhi avvelenati. Era riuscita a sopraffare il parassita, e finalmente quelle strane emozioni che non riconosceva si trasformarono in un sentimento astioso da bruciare l'anima. Cercò di rilassarsi mentre i due inservienti la trascinavano verso un'ampia stanza del classico bianco slavato. Al centro c'era una vasca di deprivazione sensoriale, non come quella con cui aveva avuto esperienze la prima volta, ma più grande, raggiungibile con delle scale. Salendo queste scale c'erano delle piattaforme, su di queste vi erano dei computer sulla sinistra, mentre sulla destra c'erano una sedia, un tavolo e dei macchinari, alcuni dei quali Tammy aveva già avuto modo di sperimentare. Appoggiato ad un pilastro c'era il ragazzo vestito di bianco che la giovane ormai conosceva fin troppo bene per i suoi gusti. Manteneva lo sguardo fisso su un taccuino che teneva stretto in una mano, mentre con l'altra teneva stretta una penna rossa che faceva scorrere di tanto in tanto sulla pagina aperta, segnando delle linee o cancellando qualcosa con degli scarabocchi. Quando notò la ragazza alzò gli occhi, incrociando quelli spenti di lei, e fece cenno agli altri inservienti di lasciarli da soli. Le sorrise, camminando lentamente verso la direzione in cui si trovava lei, con una calma da fare venire i nervi.
«Sei pronta?» le chiese, sorridendole con gli occhi. Tammy voleva notare ogni dettaglio, voleva vedere ogni sinonimo di allarme. Sapeva bene che doveva fare attenzione con lui, ma sapeva altrettanto bene che la cosa più preoccupante era proprio lei. Doveva prestare attenzione anche a se stessa. Ormai non si riconosceva più. Era imprevedibile e incomprensibile come potesse farsi controllare senza rendersene conto sul momento. Ormai non riusciva più a riconoscere se le sue azioni venivano fuori spontanee o se venivano guidate dal burattinaio vestito di bianco.
Scrutò con furia ogni minimo movimento del ragazzo, per trovarne un pretesto per cacciare via quelle sensazioni che le annebbiavano la ragione, e con ciò cercava anche di capire di chi doveva fidarsi al più presto possibile. La fiducia era una cosa fondamentale in quel momento, senza di questa non ce l'avrebbe mai fatta. Per quanto fosse difficile da accettare, lo sapeva ormai meglio di chiunque altro.
«Si» disse lei, senza aggiungere altro. Era curiosa, certo, ma in quel momento ritenne fosse più opportuno restare in silenzio, con le parole avrebbe rischiato di lasciar trapelare troppo, anche ciò che doveva rimanere celato.
Il giovane le sorrise, riponendo il quadernetto sul tavolo non molto distante da dove era appoggiato. Si allontanò dal pilastro e si fece avanti. Con un incedere cauto ed ipnotico le si avvicinò. Sfiorò la pelle del suo viso con la mano destra, disegnando dei cerchi nell'aria muovendola con delicatezza, indeciso se toccarla o meno. Prevalse la voglia di sentirla al suo tocco, e fece quindi scorrere le dita sulla sua pelle nuda. Le accarezzò la guancia con le nocche, spostandole i capelli di lato.
«Non avere paura» le sussurrò all'orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra. Tammy rabbrividì. Odiava che una parte di sé potesse trovare quei brividi qualcosa di sopportabile. Si morse un labbro, trattenendosi dal parlare, ma fu anche un modo per rimproverarsi e contenersi. «Mi accerterò che non ti facciano nulla. Nessuno deve sfiorarti nemmeno un capello» la sua voce si fece più roca, e mentre attorcigliava una ciocca di capelli nel suo indice i suoi occhi penetrarono dentro ogni punto di lei, facendola sentire nuda come non mai. Sembrava spruzzassero veleno direttamente dalle pupille, che dentro un vortice di nero celavano un arma letale. Più la scrutavano più si sentiva vulnerabile, esposta a qualsiasi pericolo.
«N-no» la sua voce uscì fuori flebile come un lamento «non ho paura» deglutì. Perché doveva cambiare così tanto in sua presenza? Lui le mostrò un ghigno ed alzò lo sguardo, socchiudendo gli occhi. Sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla nuca, per poi passarla tra i suoi capelli biondi. Quando li riaprì i suoi occhi erano dilatati ed emanavano un non so che di crudele. Prese un respiro profondo e l'afferrò violentemente per un braccio, spingendola avanti a sé. Si ritrovavano spalla a spalla, ma in più sembrava che lui fosse pronto a spezzarle le ossa con una sola presa.
«Non fidarti di loro, Tammy» sibilò a denti stretti «non ti ho forse già detto di non fidarti di nessuno?» strinse ancora più forte. Tammy si morse l'interno delle guance, non voleva mostrare sofferenza, non voleva dargli quel piacere. Era sopportabile, perciò avrebbe sopportato. Solo in quel modo lo avrebbe contrastato. Solo in quel modo avrebbe affrontato sia lui che sé stessa.
«Non so di chi tu stia parlando» rispose lei. Continuava a guardare avanti, mentre lui aveva volto il viso verso di lei, guardandola. Si chinò all'altezza del suo orecchio, respirandole addosso.
«Di tutti e di nessuno» sussurrò con una voce calda e profonda da riscaldare l'intera stanza. Tammy tremò, sentendo i suoi timpani tremare insieme a lei. Deglutì, cercando di mantenere lo sguardo fisso in un qualsiasi punto perso nel vuoto che fosse lontano dal soggetto. Era difficile capire cosa potesse passargli per la testa, ma certamente non doveva essere qualcosa di sano. Tutta la storia della fiducia si andava increscendo con il tempo, diventa sempre più sospetta.
«Qual è la tua paura, Uno?» lo sfidò, voltandosi lentamente verso di lui, che continuava a tenere salda la presa. Ormai non sentiva più dolore, solo eccitazione per la provocazione appena fatta. Si sentiva innervosita, ma al contempo emozionata. Non era da lei sottomettersi al volere degli altri. Il giovane ghignò, riducendo al minimo la distanza tra di loro. Tammy rabbrividì sentendo la presenza del suo bacino contro la sua pancia.
«Apprezzo il tentativo, ma gli sforzi sono vani» un sorriso beffardo si fece largo sul suo volto per pochi istanti, poi la sua espressione tornò spenta insieme ai suoi occhi immoti. «Io non ho paura di niente» ma Tammy sapeva bene che mentiva. Lo vedeva dai suoi occhi. Era certamente bravo a mascherare qualsiasi cosa, e di conseguenza a mostrare tutto ciò che voleva venisse notato. Perciò la ragazza prendeva con attenzione le informazioni che riceveva, perché alcune potevano essere vere quanto potevano essere false. Peter era un sociopatico, era in grado di manipolare persone, comportamenti e situazioni a suo piacimento, perciò nessuno era in grado di notarlo. Per quanto Tammy fosse sveglia non poteva rendersi conto che lui la stava manipolando anche in questo.
Con un ghignò si allontanò, lasciandola andare. La giovane rimase impassibile, pietrificata. Non si mosse nemmeno di un centimetro, sembrava non altro che una bambola con lo sguardo vitreo perso nel vuoto. «Su, avanti, spogliati» le intimò. Sistemò sulla poltrona un camice bianco ed uscì dalla stanza, lasciandola da sola.

Tammy non ricordò molto di quell'esperimento, seppe soltanto che era andato come previsto per via del fatto che si trovasse ancora al laboratorio, apparentemente viva. Aveva dei lividi nell'attaccatura dell'avambraccio, segno che le avevano prelevato dei campioni di sangue, e alcuni puntini rossi e viola all'altezza del petto. Non volle nemmeno sapere di cosa si trattasse, cercò infatti di ignorare l'accaduto il più delle volte, ma sembrava quasi che il suo corpo non fosse d'accordo. Ogni volta che cercava di distrarsi uno strano dolore iniziava a camminarle su e giù, percorrendo ogni singolo punto del suo corpo e disturbandolo. Iniziò a credere che fosse psicologico, ma più lo ignorava più aumentava. Quel pomeriggio svenne, anche se per meno di due minuti, nella sala arcobaleno. La soccorse il numero 8, anche se riluttante.
«Non sarebbe una bella fine la mia se mi vedesse parlare con te di nuovo» disse. Si riferiva chiaramente a 001, e per sua fortuna Tammy aveva finalmente la mente libera da quelle stronzate che di tanto in tanto le facevano venire pensieri strani.
«Perché non vuole che mi parli?» chiese lei, rimettendosi a sedere. 8 la seguì, sedendosi a sua volta di fianco a lei, su una della piccole sedie colorate.
«Teme che tu possa scoprire la verità» disse. Si guardò nuovamente intorno, preoccupato. Tammy non riusciva a capire perché il suo nuovo amico temesse tanto quell'uomo. Si, era certamente inquietante, ma non riusciva ad immaginarlo a fare del male a qualcuno per punirlo. Non sembrava una persona malvagia dopotutto. «Credimi, lo è» disse, capendo subito dallo sguardo di lei a che cosa stesse pensando. Era una persona molto empatica, ed oltre a questo era anche in grado di percepire i pensieri altrui. «Se solo lo avessi visto quando ti sedava e ti faceva tutte quelle cose» sbuffò. La ragazza corrugò le sopracciglia, non capendo.
«Cosa?» chiese, sporgendosi in avanti. 8 impallidì, e distolse subito lo sguardo.
«Intendevo noi, se solo avessi visto quando ci sedeva e ci faceva tutte quelle cose, a noi» ricalcò la parola "noi", facendo in modo che la sua voce risultasse più alta e dura.
«E invece sembrava stessi dicendo altro» disse, arrossendo dal nervosismo. Non c'era cosa al mondo che odiasse di più di rimanere all'oscuro delle cose. Sospirò. Avrebbe lasciato perdere, cosa sarebbe cambiato? Qualsiasi cosa stava per dirle non avrebbe cambiato le cose. Ciò che importava era che si trovava in un terribile laboratorio con gente matta all'interno, perciò niente aveva più importanza.
«Te lo giuro Tammy, ti dirò la verità. Ma non ora, non qui. Devo accertami che lui non ti controlli... allora io e 15 ti diremo quello che sappiamo. Non vogliamo che tu faccia la fine degli altri».

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