3 - La numero 27

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Un uomo era voltato di spalle e stava armeggiando con una serie di attrezzature su un tavolo. C'erano una serie di boccette di vetro con scritto «DTH-27» e varie siringhe molto grosse sparse in giro. Per terra c'erano delle macchie di sangue e dei guanti lasciati di lato, anch'essi imbrattati del liquido rosso. L'uomo era vestito di bianco ed aveva i capelli biondi. Teneva stretto tra le mani un registratore nuovo di zecca, e mentre il pollice era posizionato sul pulsante d'accensione stava finendo di leggere degli appunti. I suoi occhi cristallini si muovevano rapidi da un punto all'altro, rileggendo molto velocemente ciò che aveva appena finito di scrivere. Deglutì, ed iniziò la registrazione.
«Il soggetto numero 27 sembra sopportare molto bene lo studio. Abbiamo provato a diluire prima la DTH con del dietilamide dell'acido lisergico, giorno dopo giorno andremo diminuendo le dosi di LSD e aumenteremo quelle del DTH. Il soggetto reagisce bene e fino ad ora non è sorto nessun imprevisto. Rispetto agli scorsi soggetti questo sembra non solo sopportare le sostanze, ma addirittura accettarle all'interno della sintesi proteica dell'organismo. Potrebbe essere possibile un'alterazione del DNA. Sarebbe interessante. Stavo riflettendo su come renderlo possibile e sono arrivato alla soluzione. Potrei inserire dentro di lei altro DTH puro, e non intendo quello estratto dal portale, ma quello mio, direttamente dal mio corpo. Continuerò i miei esperimenti nei prossimi giorni, terrò questo taccuino aggiornato».


Al risveglio Tammy ebbe un attacco di panico. Sperava tanto che tutto quello che aveva vissuto la notte precedente fosse stato non altro che un incubo, eppure era reale. Erano reali le cinghie che stringevano il suo corpo e la legavano al letto, era reale la sofferenza, era reale quella stanza bianca di controllo ed era reale quel ragazzo, che era fermo al ciglio della porta a fissarla. Chissà se aveva passato tutta la notte così, fermo, con le mani strette e gli occhi gelidi fissi su di lei, il suo nuovo burattino. Si dimenò. Sapeva bene che non sarebbe servito a nulla, che dimenarsi non avrebbe allentato le cinture e non le avrebbe permesso di scappare e sopravvivere, ma una parte di sé sperava ancora di essere in un sogno, e che il dolore le avrebbe permesso di svegliarsi. Era tutto decisamente troppo surreale per essere vero. Pensò alla sua amica Anita, a sua madre e a suo padre, a tutti i suoi amici; che cosa avrebbero pensato non vedendola più? L'avrebbero cercata? Forse sì, ma se era vero che si trovava al laboratorio di Hawkins allora le sue speranze di venire trovata erano inesistenti, come le probabilità che erano ormai ridotte del tutto. Ciò che entra al laboratorio non esce, era quello che dicevano le madri o le nonne ai bambini, per spaventarli ed evitare che si avvicinassero a giocare nei suoi dintorni. Stava iniziando a credere che forse non era solo un detto, ma poteva essere vero. Era finita, la sua intera vita era finita. Avrebbe compiuto 18 anni tra meno di un mese, eppure ormai si era convinta che non ci sarebbe nemmeno arrivata, che sarebbe caduta tra le braccia della morte prima che potesse rendersene conto.
«Buongiorno» il ragazzo sorrise, chinando leggermente il capo in avanti per salutare. Indossava una camicia bianca e bianchi erano anche i pantaloni, l'unica cosa di un altro colore erano le scarpe, nere e lucide, ma nonostante queste poteva mimetizzarsi benissimo con il resto della stanza, ovviamente bianca. Tammy non rispose, teneva gli occhi fissi sul soffitto. Le faceva male ogni singola parte del corpo e non avrebbe alzato la testa per guardarlo per nulla al mondo. Il giovane le si avvicinò e la guardò dall'alto, occupando la sua visuale. Accennò un sorriso privo di espressione, a tratti beffardo, e posò una mano sul materasso, proprio vicino al fianco di lei, sfiorandolo. Si appoggiò con l'altro braccio sul cuscino, avvicinando il viso a quello della giovane. Si chinò su di lei, che rabbrividì al contatto. Sentiva il peso del suo corpo sul suo petto e sentiva il suo respiro addosso farle venire la pelle d'oca. Strizzò gli occhi, non voleva vedere. Ma non successe nulla. Peter si era semplicemente chinato per ruotare una manovella che avrebbe alzato la parte alta del letto, facendo sedere Tammy, e lo aveva fatto nel modo per lui più comodo, ovvero gettandosi addosso a lei. «Così e meglio» sorrise. Si sedette di fianco a lei sul letto, guardandola fissa mentre estraeva un piccolo bloc-notes dalla tasca del pantaloni e una penna dal taschino della camicia. «Come ti senti?» le chiese, mostrando sempre quell'aspro sorriso che accentuava il suo sguardo inespressivo. La giovane restò impassibile, stava fissando le cinghie che le tenevano le mani legate. «Non rispondi, eh?»
Alzò lo sguardo lentamente. I suoi occhi erano lucidi e gonfi, non aveva dormito niente. E come darle torto dopotutto? Nessuno sarebbe riuscito a dormire trovandosi nella sua stessa situazione. Il ragazzo dal numero Uno tatuato sul polso sospirò, accarezzandosi le tempie con le mani. I suoi occhi tremarono per poco più di un istante quando prese a guardarsi intorno, come a verificare che nessuno stesse osservando. Tammy non riuscì a capirne il senso; la stanza era vuota, e nonostante avesse perfettamente capito che dietro lo specchio vi celasse un'anticamera era impossibile vedere chi potesse essere dall'altra parte del vetro. Eppure sembrava quasi che lui stesse controllando questo, che in qualche strano modo i suoi occhi riuscissero ad attraversare lo specchio o addirittura le mura. La ragazza alzò lo sguardo verso gli angoli del soffitto, dove lui aveva posato la sua attenzione sempre con i suoi occhi tremanti; lì c'erano due telecamere. Non se ne era accorta prima di quel momento. Allora la stavano osservando. Sobbalzò quando la luce rossa di una delle telecamere smise di lampeggiare, e subito dopo quando il ragazzo volse lo sguardo verso l'altra telecamera di sorveglianza anche la luce di questa si spense. Tammy strizzò gli occhi, non riusciva a capire come fosse possibile, ma poi si disse subito che era stato sicuramente qualcuno di esterno a disattivarle in modo che lei potesse trovarlo impressionante. «Non devi avere paura di me» allungò il braccio verso di lei, accarezzandole una guancia. «Io voglio aiutarti» fece scendere la mano più in basso, facendole venire i brividi ad ogni tocco mentre le sfiorava con la punta delle dita la pelle candida. Le passò una mano tra i capelli, spostandole una ciocca dietro l'orecchio , poi da lì iniziò ad accarezzarle il collo, scendendo verso la clavicola. Disegnò dei cerchi sulla sua pelle con la punta delle dita, guardandola fissa negli occhi. Sembrava quasi che l'avesse incantata, perché non riusciva a distogliere lo sguardo, e più lo guardava più notava che i suoi occhi si facevano grandi, come se fosse pronto a nutrirsi di lei con un solo sguardo. Fece scendere la mano ancora più in basso, muovendosi con delicatezza fino allo scollo della sua maglietta. Seguì con le dita la cucitura dello scollo, continuando nonostante a ciò a guardarla solo negli occhi. Quando infilò un dito tra la pelle e il lembo di tessuto che le ricopriva la spalla, abbassandolo per scoprirla Tammy cercò di ritrarsi, ma non poteva farci nulla. Lui ghignò, e iniziò ad accarezzarle la pelle intorpidita tra la clavicola e la spalla sinistra. «Io sono dalla tua parte» le sussurrò, sorridendole.
«Non sembrerebbe» si morse il labbro. Gli occhi le divennero lucidi. Non aveva paura, non voleva avere paura, eppure era così difficile... non riusciva nemmeno a controllare le sue emozioni. Lui le sorrise dolcemente, allontanando la mano dalla sua pelle calda.
«È il male minore, Tammy» si guardò nuovamente intorno, poi si chinò leggermente in avanti. «Lo so che ti sembrerà strano, ma devi fidarti di me. Io faccio parte dei buoni, Tammy, non devi temere. E l'unico modo per sopravvivere qui dentro è non lasciarci sopraffare dalla paura»
«Se è vero che fai parte dei buoni, allora perché mi hai portata qui e mi hai legata?» pianse. Alzò gli occhi al cielo, cercando di smetterla. Odiava piangere, la faceva sentire così esposta. Lui prese un gran respiro. Non stava più sorridendo.
«Perché le cose dovevano andare così. Come ti ho già detto, si tratta del male minore» sospirò quando la vide continuare a piangere. Poggiò una mano sulla coscia di lei, coperta dalla gonna. «Non voglio farti del male, Tammy. Ascolta, vedi quelle telecamere?» indicò con la testa la direzione in cui si trovavano le telecamere di sorveglianza spente. La giovane annuì, non capendo. «Bene, le ho spente io. Tutto questo, il motivo per cui ti ho portata qui e ti ho spaventata è il protocollo. Ho dovuto spegnerle e fare in modo che nessuno potesse vederci o sentirci per spiegarti come stanno le cose. Io sono dalla tua parte, Tammy, non devi avere paura di me» la giovane pianse ancora. Aveva paura di lui, provava disgusto, ma aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi. Aveva bisogno di qualcosa in cui credere, di una speranza. Non voleva credergli, ma forse era proprio quello di cui aveva bisogno. La debolezza ci porta spesso a fare scelte sbagliate, a fidarci anche quando tutti i segnali ci dicono di non farlo.
«Se non vuoi farmi del male, allora perché non mi sleghi?» insistette, piangendo. Lui la fissò per qualche secondo, forse perché stava riflettendo. Era arrivato alla conclusione che quello era l'unico modo per portarla a fidarsi, a cedere a lui.
«Certo» le sorrise. La giovane tirò un sospiro di sollievo, sorridendo. Si chinò verso le sue caviglie, aprendo la prima cinghia, poi salì verso le gambe, e fece lo stesso. Quando si soffermò all'altezza del suo bacino la giovane tremò. Sembrava che stesse avendo difficoltà nell'aprire la cintura, e ciò lo portò a tastarla forse un pò troppo. Ma a lei non importava, presto sarebbe potuta tornare a respirare. Le sciolse le ultime cinghie, lasciandola lì, ferma e meravigliata. Non si sentiva più le braccia e nemmeno le gambe, le faceva male tutto. Sorrise, alzando subito le braccia per toccarsi la faccia con le mani fredde. E sorrise ancora, muovendo i piedi. Il ragazzo si alzò prendendola per una mano, aiutandola ad alzarsi. Le stava lì vicino, aiutandola a reggersi in piedi mentre la teneva salda per gli avambracci. Lei rise d'isteria, ed altre lacrime le bagnarono il viso. Camminare era una cosa così comune, eppure le sembrava la cosa più bella del mondo, come se fosse stata sedata per mesi e mesi, come se fosse il premio più bello. Perché è proprio così che funziona, dopo che si passa tanto tempo tra le torture delle tenebre anche l'ombra ci sembra luce.

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