25 - Ricordi di una verità

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«Vieni avanti» Peter tese la mano verso la giovane donna che stava ferma sui suoi piedi ad osservarlo. L'ambiente in cui si trovavano era cangiante, un attimo prima un cielo azzurro e un prato verde e l'attimo a seguire un cielo arancione e una lunga strada di campagna senza fine li circondava.
Tammy sospirò, stringendosi le braccia. Si guardò intorno, e poi decise di seguirlo. Non sapeva dove la stava guidando, ma non aveva importanza.
001 le afferrò una mano, sorridendole.
«Dove mi porti?» chiese lei, con un tono un po' sarcastico. In qualsiasi luogo si trovassero, sapeva bene che era difficile raggirarlo e cambiarlo.
«Volevi la verità, no?» i suoi occhi scavarono con prepotenza dentro quelli di lei «Ti mostrerò la mia storia» le strinse la mano con forza, e intorno a loro l'ambiente cambiò. Vortici di colori li circondarono e li avvolsero come un tornado mentre del vento scuoteva i loro capelli.
Scomparve tutto, si trovavano immersi in un nero profondo per qualche istante, e subito dopo il vuoto prese le sembianze di una camera da letto. Era una stanza buia, triste. C'era un grande armadio di quercia che occupava tutta una parete e di fronte ad esso una scrivania mal ridotta e un letto a baldacchino. C'era una sola finestra, che seppur abbastanza grande ed in grado illuminare notevolmente l'ambiente era coperta da una grande tenda color prugna, che rendeva la camera buia e tetra. Sul letto c'era un bambino, seduto con la schiena poggiata al muro e un libro tra le mani. Teneva gli occhi chiusi e le sue pupille si muovevano sotto le palpebre, come se in qualche modo stesse leggendo le pagine in quel bizzarro modo.
«Henry! Henry!» una bambina dai lunghi capelli biondi raccolti in una coda alta aprì la porta e corse verso il bambino.
Tammy la vide correre davanti ai suoi occhi, evitandola completamente.
«Possono vederci?» chiese, voltandosi verso Peter che continuava a tenerla per mano. Il giovane le volse uno sguardo vuoto, privo di espressione.
«No» disse, continuando a guardarla. La giovane corrugò la fronte.
«È un ricordo?» pensò che era l'unica soluzione plausibile. Dopotutto avevano appena realizzato che non potevano lasciare quel luogo, perciò quello doveva essere sempre in collegamento tra le loro menti. L'unica spiegazione era che Peter le stesse mostrando un suo ricordo. Ma dov'era lui allora?
«Chiamalo come vuoi» era freddo, più del solito. Il suo sguardo glaciale si sciolse da quello di lei, tornando a guardare i due bambini.

La bambina corse verso quello che sembrava il fratello, sbattendogli in faccia un coniglio morto.
«Sei stato tu! Lo so che sei stato tu!» pianse, scuotendo l'animale davanti al viso del fratello, come se questi non potesse vederlo. «Lo dirò alla mamma» continuò a piangere, per poi correre via ed uscire dalla stanza. Il bambino, Henry, rimase immobile per qualche istante, impassibile e con gli occhi affranti. Sembrava estremamente triste, perso. Si voltò per qualche secondo verso il punto in cui si trovavano Peter e Tammy, quasi come se li avesse percepiti, e subito dopo tornò a guardare il suo libro chiudendo gli occhi, come se niente fosse successo.
L'immagine divenne sfocata e presto tornò tutto nero. Erano nuovamente soli, solo lei e il misterioso ragazzo con il numero uno tatuato sul polso.
«Questo Henry...» non sapeva cosa dire, era tutto così strano. Perché le aveva mostrato quel ricordo?
«Ero io» disse lui, rimanendo impietrito. Non osava guardarla in faccia, teneva lo sguardo fisso nel vuoto, in uno dei punti sparsi nel buio che li circondava.
«Eri?» chiese. Si morse un labbro. «Il tuo nome è Henry» uscì quasi come un sussurro tra sé e sé.
«Il mio nome è Peter» rispose lui, stringendole con prepotenza la mano, il suo tocco era rude ma al contempo gentile «Henry è morto da tempo ormai» i suoi occhi incontrarono quelli da volpe di lei, iniettati di veleno. Sospirò, e poi fece un passo avanti, portandola a seguirlo. Lo spazio cambiò nuovamente in un vortice di colori, e non appena un vento freddo li avvolse si trovarono nel laboratorio. Un uomo alto e affascinante di mezza età si trovava chino sul bambino di prima, intento a tatuargli il numero 001 sul polso. Tammy corrugò le sopracciglia, non era possibile.
«Che cosa ci fa il sindaco lì?» chiese, avanzando. Cercò di lasciare la presa, ma Peter la tirò a sé. Non avrebbe voluto lasciargli la mano se avesse saputo quali sarebbero state le conseguenze. Era meglio non separarsi.
Il giovane la guardò confuso, inclinando leggermente la testa verso destra.
«Il sindaco?» chiese, curvando le sopracciglia. La giovane guardò prima l'uomo e poi Peter, non riuscendo a capire come non potesse riconoscerlo. «Brenner sindaco?»
«Perché è nel laboratorio? Perché ti sta facendo quel tatuaggio?» era difficile capire chi tra i due fosse più confuso.
Peter scosse la testa, avvicinandosi lentamente alla giovane.
«Lui è Papà» rispose quasi senza pensare, ma non appena vide lo sguardo interrogativo di lei si ricompose «Non è il sindaco».
La ragazza fece per parlare, ma non riusciva a pensare a qualcosa da dire.
«Peter, è il Sindaco di Hawkins da anni ormai... Come puoi non saperlo?» dei brividi percorsero ogni singolo angolo del suo corpo, seppure non fosse realmente fisico.
«Interessante» disse lui, per poi stringerle la mano con più forza. Fece un passo indietro e tutto tornò nero. Ancora una volta, erano solo in due.
Evidentemente non era solo lei quella a scoprire di più su quegli strani segreti.
Da quando Peter aveva messo piede in quella realtà alternativa non era mai uscito dal laboratorio se non per andare a quella festa in cui si erano incontrati. Aveva scoperto quel giorno stesso di essere lui il capo. Prima di allora aveva creduto che Brenner si trovasse ancora al suo posto, a tirare le redini di quel luogo, magari nascosto da lui. Quando aveva capito come stavano le cose aveva iniziato a credere che Brenner non esistesse in quel mondo, ma invece ora capiva che non era così, era semplicemente un'altra persona. Si chiese se allora esistesse anche un altro Henry Creel, un Henry che non era mai diventato 001, un Henry che non era mai rinato come Peter Ballard.
«Cosa mi dici dei Creel?» le chiese, lasciandole finalmente la mano. In quell'ambiente non c'era nulla da temere. Erano al sicuro.
«Chi?» rispose lei, con una domanda che lo incuriosì ancora di più. Tammy si innervosì; più cercava di scoprire la verità, più si sentiva presa in giro.
«Anni fa ci fu una strage, una famiglia fu trovata morta tranne il padre, Viktor Creel» le sue pupille si dilatarono immerse nel buio angosciante. «Non eri ancora arrivata ad Hawkins, ma ne avrai pur sentito parlare» le si avvicinò di fretta, fissandola imperterrito.
«Peter io... non credo esista nessun Viktor Creel, non ho mai sentito parlare di una strage ad Hawkins» si morse il labbro. Credeva seriamente che 001 si stesse prendendo gioco di lei, ma i suoi occhi sembravano così puri e le veniva così difficile capire quando le mentiva.

Lui sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Girò su se stesso, per poi accasciarsi per terra. Tutte le sue certezze stavano crollando. Pensava di esserne padrone, pensava di essere padrone di quel mondo ma invece non conosceva proprio nulla. Non sapeva perché si stesse infastidendo tanto, ma qualcosa dentro di lui crollò. Il piedistallo sul quale aveva vissuto stava iniziando a cedere, e il tutto solo perché lui non esisteva. Nel suo mondo reale era sicuramente morto, mentre lì non era nessuno. Non apparteneva a nessun luogo, a nessun tempo. Era quella la morte? Oppure era realmente un distaccamento temporale? Si sentiva perso, smarrito come non mai. Ogni sua certezza era crollata. Aveva bisogno delle risposte, aveva bisogno di tornare il prima possibile.

«Smettila di prenderti gioco di me!» Tammy non seppe cosa gli prese, ma gli scagliò contro. Cadde su di lui, ritrovandosi distesa sul suo corpo. Peter inarcò le sopracciglia, afferrandola d'istinto per i polsi, per poi rigirarla su se stessa in modo da trovarsi sopra di lei. La ragazza ansimò, ma era troppo arrabbiata per far caso alla situazione. Non erano neppure nella realtà, cosa avrebbe potuto farle? Erano solo pensieri, no? «Dammi delle cazzo di rispose» sbattè le gambe, alzando il petto in sù, scontrandosi contro quello di lui. Un ghigno prese forma sul viso di lui, in disaccordo con gli occhi lucidi e persi nel vuoto.
«Bene, vieni» sospirò. Si alzò e le afferrò la mano, aiutandola ad alzarsi a sua volta. Quando la strinse un vortice di colori li avvolse. Questa volta il vento non c'era, ma l'ambiente cambiò ugualmente. Si trovavano ancora nel laboratorio.
Era la sala arcobaleno, ma era diversa dal solito. C'era del sangue sparso sulle mura e sul pavimento c'erano una ventina di bambini inermi, morti. Avevano le ossa spezzate ed erano privi di occhi. Tammy sussultò, avvertendo un conato di vomito. Deglutì, mordendosi le labbra.
C'era Peter, ma non il suo Peter, un ricordo. Era colmo di sangue anche lui, e stava parlando con una bambina dai capelli rasati. Alzarono entrambi le mani, scontrandosi senza muovere un dito. Dopo qualche secondo il ricordo di Peter fu scaraventato contro lo specchio, venendo assorbito da esso, poi tutto tornò nero.

«Che cosa significa?» chiese la giovane, impaziente. Peter le volse uno sguardo sprezzante, avvelenandola. Lei sussultò, indietreggiando quando lui le si avvicinò con uno sguardo maniacale stampato sul volto pallido ed affranto.
«Io non appartengo qui, Tammy» ogni passo che faceva sembrava renderlo più malato. «Io sono stato mandato ingiustamente qui» i suoi occhi si riempirono di lacrime color sangue. L'ambiente prese a puzzare di marciume, di morte. Una nube oscura avanzò alle spalle di 001, facendosi sempre più vicina e minacciosa. «Questo posto che tu chiami realtà non mi appartiene. È stata quella bambina a spedirmi qui, a privarmi della mia stessa vita, del mio successo.» inclinò lentamente la testa verso destra, sgranando gli occhi. Non sbatteva le palpebre e non distoglieva il contatto visivo nemmeno per un secondo. Sembrava tutto tranne che umano. «Non so nemmeno io cosa significhi. Mi sono risvegliato qui cercando giorno dopo giorno un modo per tornare a casa, soffrendo e pensando alla mia rivincita, al modo per riavere tutto indietro, per riprendere il controllo» il suo tono di voce si fece meno roco, più dolce. Si fermò a pochi centimetri dal viso di Tammy, sfiorandole il viso con una carezza incerta. La ragazza si sentì avvolta dal calore del suo tocco. Non aveva paura di lui, ma del mondo in cui lei stessa potesse trovare rassicurante la sua tossicità, il suo essere così instabile, così crudele. Più mostrava di essere un mostro, più voleva stare al suo fianco. Sapeva bene che tra i due forse lei era quella ad avere più problemi.
Avvicinò le labbra al suo orecchio, sospirando.
«Quel modo sei tu, Tammy» sussurrò, stringendole la nuca.

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