4 - Gli esperimenti di Hawkins

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«Vieni, ti faccio uscire» le disse, avviandosi verso la porta. La giovane iniziò a tremare, tutto ad un tratto impallidì ed ebbe la sensazione che le stesse per mancare il respiro. Lui la guardò curvando le sopracciglia, per poi mascherare in fretta quell'espressione incuriosita con una falsamente intenerita e disinvolta, avvicinandosi a lei. Le strinse le mani tra le sue e la guardò negli occhi. «Va tutto bene, tu fa finta di non sapere nulla di ciò che ti ho detto, e tutto andrà per il verso giusto. Ti farò tornare a casa» le sorrise. Tammy annuì. Prese un respiro profondo e cercò di rilassarsi. Ma cosa le stava succedendo? Non era più in lei, e non era altro che una succube. Era cambiata così tanto in una sola notte... talmente tanto che sembrava che si trovasse lì da più tempo. Si scacciò presto il pensiero di mente, non era possibile. Quel giorno era il primo di settembre, e sarebbe dovuta essere a scuola, mentre invece era lì, impaurita e tanto ingenua da fidarsi del diavolo.
«Aspetta» rimase immobile, con lo sguardo fisso sul pavimento. Quando lui si girò verso di lei alzò lo sguardo, fissandolo in quegli occhi scavati da profonde occhiaie di chi sembrava non dormisse da anni. «Perché hai detto che sono la numero 27?» chiese. Si era ricordata solo in quel momento che l'aveva chiamata in quel modo, e ovviamente non poteva aver fatto a meno di notare il suo tatuaggio, un altro numero, il primo. Lui sorrise meccanicamente ed infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, spingendo il bacino avanti e poi indietro.
«Lo scoprirai presto, Tammy» fece per voltarsi, ma lei glielo impedì nuovamente, insistendo con un'altra domanda. Era quasi evidente che stesse per perdere la pazienza, ma non poteva permetterselo, non poteva rovinare il gioco e mostrare il vero sé.
«Chi sei tu?» chiese, quasi terrorizzata. Non sapeva il perché della domanda, del perché gliel'avesse voluta porre proprio in quel momento. Sperava che le avesse detto di conoscerla già da prima, di essere una persona "reale" e a lei familiare, in modo da potersi aggrappare a qualcosa di vivo, di reale per lei. Senza dubbio nulla le sembrava reale ormai, a partire proprio da sé stessa. Più passavano i minuti più si estraniava dal suo corpo guardandosi dall'esterno, e tutto ciò che vedeva era un'estranea. Sembrava un'altra persona, anche nel modo di fare e di reagire. Lo sembrava talmente tanto che ogni volta che parlava restava sconvolta del fatto che le parole uscissero realmente dalla sua bocca. Lui sorrise, senza battere ciglio.
«Mi chiamo Peter, ma questo lo sai già. Non ti serve sapere altro» si voltò ed aprì la porta, facendole strada nel lungo corridoio bianco. C'erano varie porte numerate, e in alcune di queste i numeri erano stati cancellati o raschiati via e segnate da una grande X rossa. Tammy si chiese che cosa potesse significare. Voltò le spalle per guardare bene la porta della stanza dalla quale erano appena usciti: il numero 27 era fresco di tintura. Voltarono a sinistra, e infondo al corridoio c'era una porta un po' più grande. Il ragazzo la aprì, varcando la soglia con la ragazza spaventata dietro di lui, esitante. La stanza era ampia e bianca, con un grande arcobaleno disegnato sul muro. In fondo alla stanza c'era un grande specchio che occupava tutta la parete e per terra c'erano vari giocattoli per bambini, ma di loro non c'era alcuna traccia. Si guardò intorno, anche lì c'erano due telecamere negli angoli più estremi della stanza, in modo da inquadrare ogni singola zona. Alcuni giocattoli sembravano vecchi e piuttosto datati, e pensò che se quella fosse stata veramente una stanza per fare giocare i bambini doveva essere proprio deprimente.
«Venite avanti» disse Peter. Bambini e ragazzi uscirono dai loro nascondigli dietro i mobiletti colorati. Avevano tutti i capelli rasati ed indossavano delle tuniche ospedaliere. Sembravano malnutriti, con chiazze violacee sulla pelle e profonde occhiaie. Erano solo in cinque; due bambini piccoli e magrolini che potevano avere non più di otto anni, e tre ragazzi tra circa i quattordici e i diciassette anni. Si chiese se fossero numerati anche loro, e se tutte quelle stanze con i numeri cancellati e le grandi X fossero così perché gli altri erano morti. Tammy li guardò preoccupata, per poi guardare il ragazzo dal numero uno tatuato sul polso. Ma in che razza di posto era finita? «Vieni avanti, numero 15» Peter accennò un sorriso quando il ragazzo che aveva appena chiamato con quel numero si avvicinò. La giovane notò che erano tutti sconvolti, e si lanciavano occhiate preoccupate. Quindici sembrava il più grande, era alto e magro e mostrava i segni della pubertà sul viso. «Vai a chiamare il dottor Howard» sussurrò. Il ragazzo annuì, mantenendo lo sguardo fisso su un punto oltre la spalla del numero Uno. Tammy notò che i suoi occhi erano vitrei e avevano uno strano colore biancastro che lasciava apparire le sue pupille opache. «Ha perso la vista da poco» disse non appena il povero ragazzo si allontanò, uscendo dalla stanza. Tammy deglutì con forza, sentendosi l'ansia salire sino alla gola.
«Come è successo?» chiese lei, voltandosi a guardare verso la porta da poco aperta dal numero Quindici.
«Ha giocato troppo con il fuoco» era impossibile e il suo sguardo era vuoto, privo di emozioni mentre guardava il vuoto. Subito dopo sembrò ricomporsi e le mostrò un sorriso. «Purtroppo è stato inevitabile. Presto capirai che questo laboratorio viene guidato da strane regole» strinse le labbra, come a simulare un'espressione delusa. Ma lei non ci fece caso. La porta si spalancò e alle loro spalle rientrò il ragazzo cieco in compagnia di un uomo con addosso un camice bianco, che doveva essere il dottore. L'uomo sorrise e salutò Tammy come una vecchia amica.
«Bene, Uno mi ha detto che hai un paio di domande» disse. La giovane guardò spaventata Peter. Non si fidava di lui, e forse tra tutte quelle persone lui non doveva essere il più puro di cuore, eppure era l'unica cosa a cui riusciva ad aggrapparsi. Non aveva scelta che sperare che lui potesse aiutarla. «Noi qui facciamo degli esperimenti su individui diversi dal comune, speciali. Forse non lo saprai, ma anche tu sei speciale, e noi qui ti aiuteremo a trovare e ad incanalare il tuo potenziale. Lo scopo del laboratorio è proprio questo, fare in modo che chi possiede una psiche sopra del normale possa raffinarla al massimo delle sue capacità.» Indicò con le grandi mani tutti i bambini presenti. «Loro sono le mie creature» rise «i miei esperimenti numerati».
Tammy fece per reagire, forse per urlargli contro o insultarlo, ma Peter le diede un pizzicotto sul braccio, richiamando la sua attenzione prima che potesse fare qualcosa.
«Non farlo, non reagire» le sussurrò stringendo le labbra, in modo che il dottore non potesse vederlo. «Sta mentendo, non devi fidarti e non devi sfidarlo» le lanciò un'occhiata furtiva e subito tornò a guardare avanti a sé, verso lo scienziato.
«Cara Tammy Melbinson, d'ora in poi risponderai al nome clinico di Ventisette» le disse. Poi si rivolse a Peter «Uno, tu ti occuperai di lei. Starà a te documentare gli studi e verificarne i risultati» il giovane annuì presto, ignorando le occhiate della ragazza preoccupata. Il medico uscì subito dalla stanza, lasciando i ragazzi soli. Tornarono tutti a giocare, cosa che sconvolse molto Tammy, mentre loro due restarono fermi al centro della stanza.
«È una fortuna che abbia mi confermato per la tua assegnazione» disse, guardandosi intorno, probabilmente per accettarsi che nessuno guardasse o ascoltasse. «se ti avesse assegnata a Stuart avresti probabilmente fatto la fine di tutti gli altri numeri che non vedi presenti» non ci fu nemmeno il bisogno di chiedere quale sarebbe stata la fine, perché aveva lasciato perfettamente intendere dalla sua espressione che doveva trattarsi della morte.
«C-Che cosa vuol dire che mi farete e-esperimenti?» balbettò, tremando. Peter le strinse un braccio, penetrando il suo sguardo gelido dentro gli occhi di lei.
«È necessario» iniziò.
«Fammi indovinare, è il male minore?» lacrime di nervosismo le bagnarono le guance rosse. Odiava essere così debole, così fragile. Odiava non poter avere scelta, di dover subire una tortura del genere. Perché si, era proprio una tortura; venire strappata dai suoi familiari e dai suoi amici, venire privata dei suoi sogni e desideri e della sua stessa vita. Il giovane accennò un ghigno che forse si era lasciato scappare. Strinse la presa sul braccio di lei, facendole male.
«Ti prometto che non ti farò troppo male» le si avvicinò lentamente, fissandola senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi tremanti. «Ti renderò solo più forte, è così che potrò aiutarti» Allentò la presa e continuò a guardarla. La ragazza si accarezzò subito il braccio arrossato, sfregando il punto in cui provava dolore. Abbassò lo sguardo. Non era da lei subire senza reagire. Eppure in quel momento la ragione predominava insieme al suo istinto di sopravvivenza. Avrebbe aspettato il momento giusto, forse le serviva davvero l'aiuto di quel ragazzo. Lui si incamminò verso la porta, voltandosi verso di lei solo dopo aver afferrato la maniglia. «Prova a socializzare con gli altri esperimenti. Noi ci vedremo più tardi nella tua stanza» sorrise malignamente, sbattendosi la porta alle spalle.

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