🔹0. Il principe azzurro

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Il caldo imperla la mia fronte di sudore, l'aria è irrespirabile. Puzza di alcool e di profumo costoso misto a sudore. Centinaia di corpi, lobotomizzati dall'alcool e dalla droga, si muovono in pista, ondeggiando i fianchi a ritmo di reggae ton.
Le mie labbra si arricciano in una smorfia che distendo solo per bere un sorso di bourbon.
Detesto ballare. Detesto la confusione. E detesto le cinque teste di cazzo sedute al mio privè. Slaccio il primo bottone della camicia e cerco di prendere più aria possibile.

Ho ordinato un'altra bottiglia di bourbon, magari mi aiuta a riprendermi.
Se l'alcool non ti uccide ti fortifica, le sagge parole di mio padre per giustificare la sua dipendenza.
Faccio un mezzo sorriso.

Getto uno sguardo in fondo all'enorme discoteca, lì verso il bancone. Ci sono tre barman io ne conosco solo uno. Stringo i pugni, vorrei che il mio sguardo potesse ucciderlo all'istante. Sta parlando fitto fitto con una ragazza, da qui non riesco a distinguere bene i suoi lineamenti, ma sembra piuttosto piccola e insignificante.
Per un istante i nostri occhi si incontrano mentre guarda proprio nella mia direzione, distoglie subito lo sguardo quando si accorge di essere stata beccata in flagrante.
Che cazzo hai da guardare? Vorrei chiederle.

«Ehi, cariño, tutto okay? Sei il re delle feste, di solito. Stasera sembri piuttosto silenzioso.»

Due mani, sottili e perfettamente curate, mi accarezzano le spalle fino al petto, il seno piccolo e sodo si poggia alla mie schiena mentre si produce in questo abbraccio non richiesto. Sento i suoi capezzoli indurirsi attraverso i nostri abiti, il suo respiro sul collo.
Mi irrigidisco.

L'unico momento in cui tollero di avere un contatto fisico è mentre scopo ed anche lì è tutto finalizzato al mio corpo che entra dentro a un altro corpo. In altre circostanze, tipo questa, lo trovo una fottuta perdita di tempo, perciò scosto le sue braccia da me neanche in maniera troppo carina.

«Sei cattivo, Leonardo» miagola dietro la mia nuca. Mi volto lentamente verso di lei. Le luci del Veneno gettano ombre colorate sul suo viso imbronciato e truccato di tutto punto.

«Non cominciare, Luz.»
Se ne sta inginocchiata sul divanetto bianco del privè, il suo abito, dalla profonda scollatura, pieno di paillettes argentate ferisce quasi i miei occhi. Li strizzo un paio di volte. Mi bruciano e la vista è leggermente annebbiata. Forse ho bevuto un po' troppo.

«Non sei mai gentile con me.»
Mi produco in un sorriso che mette in mostra la dentatura perfetta.

«Non sono mai gentile. Con nessuno.»
Provo un sadico piacere nel pronunciare tali parole.
Che male c'è nell'amarsi per quello che si è?
In un mondo ipocrita in cui tutti fingono di essere come non sono.
Tipo la ragazza che ho di fronte: Luz Àlvarez, l'ereditiera di un'impresa in cui scommetto che non ha mai neanche messo piede. Luz, luce nella sua lingua, eppure di lucente non ha nulla se non l'abito che indossa; dentro è oscura come un pozzo senza fondo.

La conosco da quando eravamo solo due ragazzini di quattordici anni. Due adolescenti che hanno sempre avuto tutto, ma sono sempre stati da soli. Ci siamo fatti compagnia nella nostra solitudine. Insieme abbiamo scoperto il sesso in ogni sua forma. Le droghe di ogni tipo. Abbiamo mischiato le due cose condendole con fiumi di alcool e ne è venuta fuori una situazione malata, perversa, tossica. Sono passati quindici anni da allora e non ho ancora capito chi dei due fa del male all'altro. Immagino entrambi.
Non la amo. Non la amerò mai. Ma lei c'è quando mi serve. Lei c'è sempre, anche quando non mi servirebbe.

Ritornando a noi, si avvicina di nuovo a me camminando a quattro zampe, fino a portare il suo viso a pochi centimetri dal mio. Si lecca le labbra colorate di rosso e si produce in un sorrisetto, di cui conosco il significato.
«Andiamo a scopare in bagno?»
Inclino la testa leggermente di lato.

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