Sia quel che deve essere fatto (2)

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Quando si solleva, piglia la via mancina che costeggia la groppa del monte Busso e s'infila oltre, verso le foreste degli Irpini e le gole dei loro colli. E così riesco a spiegarmi anche il ferro, la roncola che ha ordinato di portarmi dietro.

Bestemmio a denti stretti: oltre che muto, l'inverno deve averlo pure fatto ammattire. Perché per quanto non ne abbia così tanti di rivali tra tutti i Lucani, per quanto feroce e capace sia ancora nel pestare e fare strage, pure con la gamba azzoppata e lontano da anni dai campi di battaglia, qui e ora siamo sempre e solo in due. E pascoliamo due dozzine di vacche che sfamerebbero un villaggio per un anno intero. Fossi un gruppo di Irpini, di nasoni Sanniti, di Dauni affamati o di bestie come i Caprai, certo che ci farei un pensiero. Padre, Marso... Un pazzo incosciente!

Del resto, mi dico ripigliando il bastone e liberando il passo alle bestie, se non è mai diventato un capo di guerra è perché gli è sempre difettata la strategia, l'astuzia. Pure quando aveva entrambe le gambe sane. Perché spezzare le schiene e spargere le viscere non è la sola cosa che un condottiero debba saper fare. E se Mamerte non l'ha scelto perché fosse un Signore è perché non basta la ferocia in battaglia per comandare le genti. Ci vuole la maniera della politica, ci vuole equilibrio, ci vuole visione: tutte cose che Marso non ha mai conosciuto.

Però, c'è da riconoscerlo: ammazza come il figlio della Guerra, fiuta i pascoli peggio dei lupi e indovina i ruscelli e i rivi meglio di una pecora. Per questo ha sempre seduto attorno al fuoco delle adunanze pur avendo un solo figlio.

Torno a scalpicciargli dietro.

Mentre aspetto che il gregge mi sfili davanti per chiudere il corteo, mi chiedo se davvero sia solo stata la neve a fargli ghiacciare il cuore. Se non ci sia un sortilegio o l'ira di Cerere e Mamerte, dietro questo suo cambiamento. Perché sembra quasi che non gli importi più nulla. Nulla di nulla.

Nemmeno col sole tiepido e alto in cielo riusciamo a scambiare mezza parola.

Marso tira dritto a testa bassa. E se le bestie si attardano, fiutano una pozza o provano a fermarsi per strappare il verde nuovo alla terra, corre rapido col bastone a rimetterle in riga. Pesta duro, sputando. Le spinge avanti.

- Hanno sete, padre. Camminiamo dalla notte...

Si volta.

Sul viso nemmeno una ruga.

Bastano gli occhi con cui mi fulmina a convincermi che non è il caso di aprire bocca. In quello sguardo c'è la furia che conosco, ma è come se tutto il resto, il suo corpo, pezzi interi del suo cuore, la sua testa, non fossero più con lui.

- Alla prossima che scarta, ti lascio morto ai corvi...

Anche la voce, adesso, sembra venire fuori dall'Orrido di sotto, dal gelo nero.

Camminiamo ancora, un altro breve tratto. Poi, di colpo, senza che nessun segno lo faccia prevedere, si blocca. Sbarra il passo alle vacche e le spinge brusco oltre il sentiero. Si volta verso di me e senza dire una parola punta la testa del suo legno verso un piano al limitare del bosco, ai piedi del Busso, il Monte-Che-Dorme.

Non m'azzardo nemmeno a dire mezza parola.

La testa, però, mi ritrovo a scuoterla.

Mi chiedo cosa si sia messo in testa. Tutti i boschi attorno a quella montagna sono terre di caccia degli Irpini. E le genti dei lupi, di questo periodo, sono bestie smagrite dalla fame dell'inverno. Si riversano a frotte nel folto delle nostre foreste. Stragi di cervi, stragi di capre selvatiche, certo; non s'azzardano ai nostri villaggi e ai nostri recinti. Qui cacciano e si sperdono, però. Certe volte, poi, di quello che cacciano, lasciano appena le ossa d'omaggio a Bendì dei boschi.

Quanto ci metteranno a fiutare la cloaca del nostro gregge?

Crede davvero che la fame non affili le orecchie e i nasi feroci di quelle belve, per sentire i campanacci e il fetore dello sterco, appena avremo poggiato la schiena al primo di quegli alberi?

Spingo le ultime giovenche che s'attardano all'erba del fosso e mi chiedo perché abbia deciso che dobbiamo rischiare così tanto.

Cos'è che gli fa desiderare così forte di sfidare la morte, proprio oggi? E perché m'ha trascinato dietro, se ha in testa di farsi ammazzare?

Quando la foresta ci si schiaccia davanti, dietro una delle spalle del monte, mi trovo sotto gli occhi la rinfusa di macigni di un vecchio luogo sacro. Un cerchio sfasciato da primavere e inverni che non conosco. Preghiera di quelli più antichi pure delle genti.

Lasciato lì perché nessuno ha coraggio a muovere uno solo di quei sassi; perché nessuno ha nemmeno il coraggio di scoprire come si chiamassero gli dei che abitavano quei posti. Tra i massi giganteschi c'è acceso un fuocherello. Chi lo ha acceso e ci si sta scaldando ci da le spalle. Sicuro, non fa una mossa, nemmeno quando le nostre bestie gli sono di fianco. E sembra non gli importi nemmeno di vedere chi accompagna quel corteo di campanacci, fino al limitare della foresta.

Marso si ferma, si volta indietro e mi fa cenno di lasciare libere le vacche. Lo guardo varcare il cerchio spaccato e buttare di lato, oltre le spalle del viandante, il bastone e la sacca. Non si cura di vedere che strada prendano le bestie, una volta libere. Sembra non gli importi nemmeno di dove sia io, di cosa stia facendo.

Si lascia quasi cadere, seduto, di fronte a quel viandante, dall'altra parte del fuoco.

Prima di raggiungerlo, perdo ancora qualche istante a guardare la distesa verde. Scruto i confini del bosco, in cerca di segnali di pericolo. Cerco volute di fumo, nel cielo, per indovinare accampamenti, bivacchi nemici.

Nuvole e azzurro terso; null'altro.

Riconto le bestie: sono tutte.

Solo allora mi muovo verso i macigni e il fuoco. Quando anch'io varco le pietre e mi faccio vicino ai due, cercando un posto dove sedere, solo allora il viandante si gira e getta uno sguardo distratto.

Ha il viso scavato, la faccia della fame più feroce, della fame più nera. Ha occhi grigi: tutti e due morti. Ha la pelle macchiata dai morsi del tempo, avvizzita da anni di una esistenza raminga a cavallo tra questo cielo, questa terra e tutto quello che non si vede.

Come Murajo, il vecchio del villaggio; la voglia di vedere oltre, di sognare gli dei e di maneggiare cose che non sono di questo mondo finisce per consumarti la carne. 

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora