Una porcilaia, un bastardo (2)

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Gli ultimi scossoni di quel corpo ritorto menano intorno un po' della terra dura. La vecchia che gli stava accanto, a guardia del fagotto che tanto definivano impuro, striscia quasi senza forze verso quel corpo che si accascia. Pigola un lamento che quasi non si sente.

La tentazione è una sola: un altro colpo secco, dietro la nuca che tiene libera e così esposta, farla finita anche con lei, evitarle lo strazio. Invece metto in fila tre passi e piglio la ragazza per i capelli. Tiro e quella mi viene dietro. Strilla come una bestia portata a morire, quando ha già la lama alla gola. Sollevo fino a poterla guardare negli occhi. Soltanto allora, per cercare di spegnere un po' quel bruciore che le avvampa la testa, corre con le mani ai miei polsi e prova a stringerlo per fare forza, tenersi sospesa e non restare impiccata alle mie dita e al suo crine sudicio. A quelle trecce cordate che sembrano il vello lurido di una capra.

- Stammi bene a sentire bastarda, non lo ripeterò. Piglia al petto quel coso, lì dentro. Se vuoi restare viva attaccalo a quelle tette rinsecchite e non fare un fiato. Dimenticati la lingua dei boschi, dimentica quello che hai visto, dimentica tutto.

Al solo pensiero di avere a che fare con quel fagotto che grida peggio di tutte le sciagure dell'Orrido, quella cenciosa piglia a tremare. Il labbro è una corda tesa che non smette di vibrare.

- Se preferisci, ti do a quei quattro! Così fanno i comodi loro e imparano qualcosa, prima di scannarti e spargere il tuo sangue nella pozza.

La volto, perchè capisca bene di che cosa sto parlando. I più giovani del nostro drappello si accalcano attorno ad un paio di cagne ostili. Le trascinano dalle caviglie nella porcilaia. Carponi, come le bestie che sono. Strappano i cenci che le coprono e si snudano la cintura, per svergognarle. Prima di tagliare loro la gola.

- Preferisci? Non hai che da dirlo. Magari me ne occupo io...

Le pianto il mio muso in faccia e le mordo il naso, quel tanto che basti a farle capire che non scherzo. E perchè senta l'odore della mia saliva, la bava del lupo furioso dopo la caccia.

- Allora?

Fa si con la testa, per quello che la mia presa rabbiosa le renda possibile. La lascio di scatto e quella, per non cadere, poggia le mani proprio nel sangue del vecchio storpio. Scivola di muso sul bordo della trogola e si spacca il labbro. Non ha tempo per pensarci, non voglio ne abbia, così le assesto una pedata al fianco. Le taglio via il fiato e le sono di nuovo addosso, col morso delle dita sulla nuca, come denti di lupa coi cuccioli.

- Muoviti, cagna. È niente rispetto a quello che ti aspetta. Piglialo e mettiti buona lì dietro!

Le tende dei caprai finiscono rivoltate e stracciate che il sole è ancora alto. Hanno bestie da predare, poco altro. Sotto i giacigli di pellame, niente che valga la pena di portare. Qualcuna delle loro capanne nasconde qualche scorza degna di fare da trofeo, qualche anfora intarsiata. Nulla di prezioso. Hanno cavalli robusti, buoni a sfamarci. E capre da lasciare ai lupi nel bosco, perchè non cerchino le nostre pecore, le nostre vacche. Stivano i frutti della terra premendoli nell'olio. E forme di caglio rinsaldato tenute assieme da foglie e nastri d'erba intrecciata. Cacio bastardo, salato, buono appena per gli inverni di magra.

- Non lasciamogli in piedi nulla. Strappiamo le tende, bruciamo le pelli.

- Col fuoco, tutto quello che ha sporcato le pozze di Mephti.

I figli di Grumento sono pezzi di carne sbrindellata tra le erbe alte della riva. I molossi ne hanno fatto scempio. E non si capisce bene, ora, chi abbia voce più alta da essere ascoltato. I signori si parlano addosso. Aurio spinge me, davanti, perchè sia io la loro voce.

- S'era detto bottino. E per quanto poco ci sia, portiamo quel che riusciamo a caricarci addosso. Abbiamo ancora molto sole davanti, saremo oltre il Busso e il Brado prima che sia notte.

A parlare è uno dei Signori più giovani, quello di Velia, sull'altro mare. E a chi gli chiede come fa ad essere certo che avremo cammino sicuro e senza sorprese al ritorno risponde spiccio.

- Scanniamoli tutti. Qui, sulle rive della pozza. Mephti sarà fiera. E noi sicuri che nessuno ci corra dietro...

- Troppo sangue.

Poche parole che mi vengono fuori di rabbia. Senza nemmeno aspettare che il Signore di Velia abbia finito.

- Troppo sangue per cosa, Vurro di Bantia?

- Ci stanno cagne che varrebbero da schiave. Vecchi e bambini. Faremmo troppo sangue nelle pozze, troppo pure per Mephti, da bere e lavare. Alla Dea il rosso dei loro guerrieri basterà.

- Cos'è che dici, allora?

Marno e Dello mi spingono avanti, perchè tutti i Signori mi ascoltino. Da dietro, i fratelli del bosco, quelli rimasti a fianco a noi nella sortita, vociano sotto le mie parole per far più forte quello che dico.

- Questo dico: tagliamo la gola a tutti gli ostili che siano buoni a tenere anche solo uno zio o lanciare una pietra. E comandiamo a i vecchi e ai bambini di riprendere la via del loro mare, tornare in mezzo alle loro genti. E raccontare cosa succede a chi supera i nostri titoli e sporca le nostre acque.

- Credi che basti, a Mephti?

- Dico che il troppo non serve. Dico che tutti, caprai del mare e genti d'Apulia devono sapere cosa vuol dire offendere Cerere e Mamerte. E dico che se ne facciamo strage qui e ci fermiamo a caciotte e cavalli, non abbiamo fatto giustizia, ma solo razzia.

- Razzia e sciagura è quello che loro hanno portato.

- Mephti ripulisce, non è Dea che ricambi.

Il Signore di Velia non ci sta. La sua voce è di sangue, più forte della mia. Le mie parole sembra lo offendano. Snuda la roncola e la butta per terra.

- Pesiamo il ferro, allora, Vurro di Bantia! E io dico che il ferro più pesante decide.

Vuole andare alla conta delle roncole. Sa di non avere argomenti. Sa che le sue parole raccontano solo di vendetta e ingordigia. Il sangue è quello che vuole, per avere una storia che dica chi è, un qualche onore da tramandare.

Mi volto. Cerco Aurio e Marno e Dello. Gli altri del bosco fanno segno con capo. Vogliono andare alla conta, mettere il ferro sul mio lato del campo. So che non siamo abbastanza, ma indietro, adesso, non posso proprio tirarmi. Pulisco la roncola del sangue di quei bastardi, nell'erba alta che mi accarezza le ginocchia, poi la butto dal mio lato.

Ci sono i figli di Grumento da vendicare, ci sono feriti che non sopporteranno il ritorno. Formaggi e carne non basteranno. E le scorze, anche quelle dei più valorosi tra questi caprai, non basteranno a ripianare.

Serve sangue. E il ferro ai piedi del Signore di Veia è tanto di più.

- A quelli che hanno perso un figlio, cosa daremo, oltre il sangue?

Nessuno lo ha chiesto, vero. Nessuno ha preteso di ragionare di altri bottini. Ma a me non interessa quello che le loro tende hanno da offrire.

Non voglio scorze da vestire, né otri da mostrare. Voglio parlare di schiavi, braccia da vendere, grembi da scambiare. Non perchè m'interessi riempirmi la borsa, ma perchè voglio quella cagna. Più ancora, il fagotto che le ho cucito in petto.

- Se sono gli schiavi quelli che interessano ai fratelli del bosco... Ho il ferro più pesante e io dico che ognuno porti via una cagna ostile, oppure uno di questi bastardi che in faccia non abbia peli. Per il resto, ciascuno porti via quel che può caricarsi addosso. E quel che può portare lo schiavo che ha scelto.

Ho gli occhi dritti sulle sue labbra, quando finisce di parlare. Aspettano una mia risposta, tutti.

- O forse vuoi pesare il ferro anche su questo, Vurro dei Lucani.

Incalza: qui si decide quale Lucano abbia la voce più forte. Non ho sangue importante, non abbiamo spalle e ferro sufficienti. Ho solo una promessa, dalla mia.

- A me, così, sta bene.

Il Signore di Velia fa un cenno. Le roncole tornano in mano.

- Chi vuole un ostile se lo prenda. Gli altri scannati alla svelta; Mephti ha aspettato fin troppo.

Sta bene, deve star bene. Va fatto.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora