Caro a Mamerte (2)

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Non so quanto sia passato, da quando ho messo piede sulla terrazza di Parisse.

Ho seguito le scie dei fumaioli, giù nel villaggio, sui tetti.

Uno, due, dieci, man mano che il sole saliva. E ho guardato quelle che sembravano formiche affaccendarsi lungo la via sacra, fino al Cerchio del fuoco. Li ho immaginati tutti intorno ai sedili di legno e di pietra, in attesa che la moglie del Signore trascinasse accanto al fuoco il vitello più grosso, tra quelli di chi sarebbe partito in guerra.

Per un momento ho avuto l'impressione di guardare gli occhi di quella bestia: pronti a schizzargli fuori dalle orbite - perché lo sanno tutti gli animali che quella danza di zoccoli e zampe dal recinto al Cerchio serve solo a portarti alla morte.

- Questo sangue, Mamerte. Perché a terra non resti il nostro!

L'invocazione di Murajo; ogni dannata primavera da che mi ricordo. Ogni volta, le stesse parole antiche. Le uniche che vadano bene. Le stesse che mi rimbombano nei timpani ogni volta che mi corico, ogni volta che ci penso, ogni volta che rodo d'invidia.

Batto i pugni a terra.

Non mi basta aver messo tutta questa distanza tra me e quella maledetta cerimonia.

La Vetta, questa valle... Non si scappa!

Sento di nuovo dita ossute che mi si serrano al collo. Mi manca l'aria, l'invidia mi serra le caviglie e prova a tenermi stretto. Mani e artigli che sanno di gelo e di morte mi acchiappano le palpebre e me le spalancano.

Più volto lo sguardo altrove, più mi premono il viso verso quelle immagini.

E se pure provo a non guardare e vinco la stretta, ecco le stesse immagini, imparate a memoria, dipingermi in sogno il buio in cui provo a rintanarmi. Non c'è verso, non si scappa: devo rimettermi quella cerimonia sotto gli occhi.

Tutti lì, attorno al Fuoco. Tutti tranne me.

Ombra; arriva il suo abbaio a richiamarmi.

Ombra: non basta il nero del pelo a spiegare quel nome. Le ombre sono mute. Così tanto silenziose, che quando ti parlano è davvero il caso che tu dia loro retta. Così mi giro, lascio indietro la valle e mi alzo per andarle dietro. E cercare il punto che sta fissando con quel muso che sembra un pugnale.

Nemmeno le sono alle spalle, che mi mette in allarme un nitrito.

Un cavallo, dall'altro lato del Busso.

Proprio lì, nella terra di nessuno tra noi e le genti del Sannio. Tra noi e i nasoni di Pentra, agli ordini di Agaro. Cagne molli e vigliacche: si sono sempre e solo fatti forti per quanto figliano le loro donne e quanti maschi riescono a tenere una lama tra le mani. In guerra fanno come un gregge di pecore contro i lupi: contano sul numero per pregare di tornare a casa interi.

Sono in due sul ronzino.

Coperti di stracci.

Solo quello di dietro agita qualcosa in aria; l'altro prova a tenere salde le redini, perchè la bestia di sotto cerca il percorso più comodo invece di ubbidire. Niente cuoio addosso, figuriamoci metallo. Nudi, senza protezioni. Loro e la cavalcatura. Niente scudi, niente corazza. Nè dal freddo, né dalle lame.

Due figli del Sannio che avranno visto le mie stesse primavere.

Noi Lucani diventiamo uomini quando ci mandano in guerra, la prima volta. Loro, quando tornano da un inverno passato lontano, sui monti e nei boschi fuori dal villaggio.

Non li hanno ancora riammessi: il ghiaccio non ha ceduto al verde nemmeno per loro. Soli, costretti a fare i lupi per non scoprirsi agnelli.

Sembrano ballare, mentre li guardo accovacciato accanto ad Ombra. Da un lato i due nasoni sul cavallo. Dall'altro una cappa scura e un bastone, comparsi solo adesso.

Una cappa scura e un bastone: una immagine che basta a farmi sentire di nuovo, violento, l'artiglio gelato di un ricordo. Sotto, nella pancia. Più sotto, a rimestare tra le budella.

Perché conosco quella cappa logora. E ricordo quel bastone.

Il Mandriano.

Il viandante dei Peuceti che incontrammo io e Marso, poco prima che finissimo per arrivare alle lame. Poco prima che mi riducessi a sgozzarlo. Il Vecchio che mi fece bere quella zidera e mi truccò il sonno e i sogni. Lo stesso dannato Mandriano che andò via vaticinando di sangue e futuro, senza voler dire altro.

Ricompare ora, quel cane. Davanti a due nasoni infami e vigliacchi in cerca di una gloria facile.

Resterei qui: lo sanno gli Dei quanto mi piacerebbe restare qui, accanto ad Ombra, a gustarmi la scena. Guardare quel vecchio che si dimena, mentre quegli altri colpiscono senza nemmeno sapere da dove cominciare. E menano alla cieca col bastone o la lama o qualsiasi altra offesa si ritrovino tra le mani. E pestano senza sapere che fare, se buttare a casaccio o andare dietro al ronzino che di starli a sentire non sembra avere nessuna voglia.

Resterei qui: sarebbe sicuramente uno spettacolo molto più divertente di quello che mi sono lasciato alle spalle. È Fiamma a rovinarmi i piani, superandomi di fianco e inforcando la discesa al galoppo, col muso basso. Non bastasse lei, pure Ombra le corre dietro, di scatto, cedendo alla voce antica della loro guerra. Sono loro che mi scuotono dal gelo di quelle immagini e di quei pensieri.

E di colpo mi accorgo che avevo già la destra stretta attorno alle vertebre di bue che fanno da manico ed elsa alla roncola.

E la sinistra impicciata a slacciare il fiocco alla cintura per liberare l'offesa.

Quel Mandriano non può crepare sotto la lama di due nasoni vigliacchi e incapaci.

Quel Mandriano ha cose e racconti che parlano di me.

Quel Mandriano è mio; solo io posso metterlo a terra per spargerne il sangue. 

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora