Il sangue sporco (3)

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Il villaggio dorme.

Arriviamo agli scampoli del bosco che il cielo è ancora un manto nero.

Il latte argentato della luna non è una luce che piove a rischiarare, ma un fiato che rimbalza da altre valli, un alone timido che rischiara da dietro le vette. Il villaggio dorme e in quella penombra flebile i dettagli sono un miraggio evanescente.

Abbiamo atteso al buio, dietro il dorso del monte.

Per tutta la notte.

Senza fare un fiato. Senza il fuoco a riscaldarci. Senza fiamme a tenere lontane le bestie. Per non battere i denti, abbiamo morso stecchi di legno, rami, saggine. Per non gelarci le mani, le abbiamo fasciate di pelli e cotenne. Velli di capra a stringerci le nocche. Sarebbero bastate due lupe magre come la morte e feroci come la fame a straziarci.

Le ha tenute lontane Mamerte.

Bendì dei boschi le ha spinte altrove, truccandogli il fiuto e confondendogli le piste.

Il villaggio dorme.

Nemmeno uno sbuffo dai tetti delle capanne.

Sembrano dormire pure i cani; abbiamo addosso il puzzo di morte, sudiamo sciagura, soffiamo ferocia e nessuna delle bestie di guardia ha nemmeno latrato. Pure Cerere ha voltato le spalle a questi figli del Sannio, se sentiamo il vento leggero che comincia a soffiarci in faccia, più ci spingiamo vicini al limitare del bosco.

I fuochi della notte, tra le capanne e in mezzo ai cerchi, sono braci che sbuffano sotto la cenere.

Siamo a un soffio dalla bocca della valle.

Indoviniamo i passi che ci separano dagli stabulari e dalle prime mura. Respiriamo piano, di un fiato leggero. Non abbiamo nient'altro che lame e ferro con noi. Non abbiamo torce, legna da ardere, luce da fare. La luna è un cerchio bianco, nascosto dietro le gobbe dei colli. Non da luce; non quella che serve.

E allora aspettiamo.

Con le ginocchia premute in terra e i calcagni tesi, pronti allo scatto. Aspettiamo, con le roncole strette e le scuri che ballano tra le mani. Aspettiamo, con il naso drizzato al villaggio e la bava che fa luccicare i denti.

Siamo lucani, lupi di bosco. E abbiamo fame.

Quando il cielo si tinge dei colori del ferro, mi volto indietro.

Il muso dei fratelli di battaglia trema, stravolto; suda impazienza.

Aspettare, ora, non ha più senso. La luce livida dell'aurora ci suggerisce i passi, rischiara il campo.

Sollevo la mano che stringe la roncola. Sventolo la lama lentamente. Quel ferro è un vessillo che annuncia sciagura. Dritto in piedi, sono il primo a varcare le ultime linee del noccioleto. Avanzo piano; mi fa eco lo scalpiccio di tutti gli altri.

Al primo stabulare, stendo il sinistro e faccio segno di passare avanti. Le bestie, quelle non scappano. Capre e pecore e vitelli: ci penseremo dopo. Quando le lame sannite saranno tutte per terra, sotto i nostri calzari.È al secondo recinto che l'abbaio dei guardiani si alza al cielo.

Due cani, neri come la notte e magri come l'inverno, ci si lanciano contro. Puntano agli stinchi, coi musi appuntiti. Dietro le pelli alle finestre, il tramestio di chi si risveglia di schianto dal sonno. Sulle porte, dietro il legno, le facce di chi si riscopre precipitato in un incubo.

Le prime capanne le lascio a chi chiude la fila.

Mi lancio correndo oltre le prime case, seguendo il fumo dei bracieri verso il cerchio centrale.

Siamo in tre a inoltrarci, le lame sguainate. Cerchiamo i maschi più forti. Cerchiamo la guardia, il braccio possente, il coraggio di chi si difende e non muore.

Incontro non ci si para nessuno.

Marno e Aurio mi restano attaccati dietro. Sono figli di Variano, l'unico vero amico che mio padre Marso avesse. Questo momento l'ho sognato con loro, dieci e cento volte. L'ho sognato diverso, però.

Immaginavamo la ferocia di uno scontro, i morsi del corpo a corpo, il puzzo dei muscoli, il sangue, il rombo dei colpi attorno: quelli schivati che si sfasciano a terra, quelli vibrati che si schiantano nelle ossa e tornano indietro come un maglio nelle braccia. Ci sognavamo figli come noi correrci incontro con la lama tra le mani. Sognavamo il sapore del sangue.

Di fronte, solo sguardi spauriti, dietro le pelli delle finestre.

Per strada, solo un paio di padri, senza scorze, con qualche daga tra le mani. Dietro, mezzi nascosti, cinque o sei figli. Con le mani armate dei primi bastoni capitati a tiro.

La sorpresa: la sorpresa ammazza la gloria e spaventa la battaglia.

Siamo stati lupi, impietosi fino in fondo. E forse è proprio per tenere la pietà e la pena lontane, che mi dico guardando quelle facce di fronte che adesso, ora, c'è bisogno di essere ancora più lupi. Che adesso, ora, c'è bisogno del sangue e delle ossa spaccate, delle teste sfondate.

Perché quegli occhi di fronte mettono pena. Un capriccio che non ci possiamo permettere, se siamo qui per prenderci il sangue.

Stringo la roncola e mi lancio. In faccia alle barbe arruffate dei due padri che si parano di fronte, contro le braghe di pelle e le due scorze che hanno fatto in tempo a calarsi addosso.

Contro le lame che tremano davanti a me.

Mi lancio.

Urlo feroce. Sollevo la lama e mi getto d'istinto. Dietro mi fanno eco i fratelli d'arme. Gridano pure loro. Strepitano come me. Per farsi coraggio, più che per fare paura. Urlano, furiosi, per spaventare la pietà e cacciare la pena.

I Padri, di fronte, crollano quasi subito.

Non è faccenda di tecnica, questo scontro. Non c'è onore, non c'è gloria. Quando schianto la lama pesante sulla daga del primo Padre, più che il contraccolpo dalla spalla fino ai denti, sento il silenzio di una storia che non vorrò raccontare.

Il sannita non regge l'urto. Caracolla dietro inciampando nei passi. Resta in piedi per miracolo e il suo ferro finisce indietro. La guardia è rotta. Sollevo ancora e schianto. Prima ancora che possa rimettermi gli occhi in faccia. Gli sfascio il braccio, centrando poco sopra il gomito.

Sangue, la mano che cede, la presa che s'allenta, l'urlo. Cerca di restare in piedi premendosi l'altra mano sulla ferita.

Da dietro, disperato, uno dei figli mi carica con la vanga - non ha avuto tempo di trovare altro, non ha tempo di raccogliere la daga del padre. La sortita mi ruba il secondo assalto. Faccio un passo indietro, mandandolo a vuoto. Guardo il marginale di quella pala sfilarmi per metà sotto gli occhi. Il colpo da scaricare sul padre si abbatte sul figlio. Senza onore per il coraggio, senza rispetto per l'ardimento. La lama gli piove sulla spalla e il botto lo schianta a terra.

Non prendo nemmeno tutto il fiato che potrei. Finisco per calpestarlo pur di buttarmi sul padre che cerca l'arma per rimettersi in gioco. Gli crollo addosso, picchiando il taglio sulla testa. Mi crolla davanti; fa un rumore strano il ferro sbattuto a forza contro una faccia. Lo guardo crollare latrando, come una bestia.

Questione di attimi, e da dietro Aurio mi sbatte sulla schiena.

Mi volto con la roncola a mezz'aria. Cerco l'impugnatura persa nell'ultimo affondo. Faccio in tempo a farmi investire mezza faccia dal sangue di un'altro ragazzetto a cui il mio fratello d'arme deve aver stracciato un braccio, quasi di netto.

Marno, poco più in là, si sta accanendo sull'altro padre. Ce l'ha bocconi, sotto la lama. Non scarica il filo, non fa piovere il ferro. Preferisce pestare duro, sulla testa. Con la mazza persa da uno dei loro ragazzi e raccolta tra i piedi.

Pietà? Di pietà non c'è traccia. Dev'essere rimasta indietro, nel bosco. Tutta questa ferocia le ha messo vergogna.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora