Caro a Mamerte (1)

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- L'Ombra è ancora forte, tutt'attorno. Il buio che ti mette addosso Marso è ancora grande. Copre ogni luce, Vurro. E le tenebre non sono mai buone consigliere.

Nemmeno questa volta Murajo il Vecchio mi ha permesso di armarmi e partire.

Ci ho provato, di nuovo, anche quest'anno.

Quando le nevi hanno cominciato a sciogliersi, oltre il passo del Busso, ho passato tutta una giornata nella boscaglia a cercare la bestia giusta.

Un capriolo. Intero, vivo e caldo.

Alla rete, su un ramo, per tre ore. Senza fare un fiato.

Speravo che bastasse al Vecchio, da offrire a Mamerte, per fargli capire quanto ci tenevo a non restare indietro anche questa primavera. Non l'ha nemmeno voluto toccare. Me l'ha fatto lasciare fuori del cerchio.

Aveva già deciso.

Mi aspettava, Murajo. Lo sapeva che sarei andato a chiedere il permesso. E sapeva già come rispondermi. Una scusa buona per tenermi di nuovo ai margini, fuori, ce l'aveva già bella e pronta.

Guerra e saccheggio mi sono precluse anche questa primavera.

E con questa fanno due.

Due inverni e due fioriture nuove a catena, in questa valle. Senza il permesso di affilare la roncola e senza scorze da vestire. Senza che mi sia nemmeno concesso di addestrarmi, di fare la prova. Nemmeno giocare, alla guerra, m'è permesso.

Il lutto: non credevo fosse così pesante da portare.

Certe volte sembra schiacciarmi.

Ecco perché, ogni volta, il Vecchio tira fuori questa storia dell'Ombra.

Ecco perché, per descrivere questa condizione, tutti parlano di buio, di oscurità, di luce che non passa. Perché, quando sei comandato al Lutto, non vedi altro che il nero di quello spirito che ti sta ancora addosso e si mangia la luce.

Sono due primavere di fila che il peso di Marso mi schiaccia a terra. Tutto il peso di quel bestione che era mio padre, attaccato alle caviglie. Oppure, come quella notte, premuto addosso, stretto al collo, a togliermi pure l'aria.

Sedermi al cerchio, ora che sono unico maschio della famiglia?

Nemmeno a parlarne!

Non ho fatto guerra, non ho saccheggiato, non ho potuto combattere nemmeno nei giorni del Concilio, davanti ai signori di tutti i Lucani. Come posso anche solo pensare di potermi avvicinare al Fuoco Sacro e ragionare con gli altri Padri? Nemmeno tra i figli sembra esserci posto.

Mi tocca guardarle dai recinti, le adunanze.

In mezzo ai vecchi che non hanno più nemmeno i denti per mordere. In mezzo alle femmine e ai mocciosi. E guardare ragazzetti senza nemmeno un pelo in faccia stare lì seduti. Anche solo ad ascoltare.

Meglio le bestie, a questo punto.

Meglio le bestie, dell'invidia che monta dentro e rivanga.

Non sono rimasto nella valle un secondo di più, dopo la sentenza di Murajo.

Non volevo nemmeno sentirli ragionare di come si sarebbero preparati. Le cerimonie, le prime tinture di guerra, l'adunanza del Consiglio. Troppo, anche questa volta. Non volevo nemmeno sentire di che sapesse l'incenso che il Vecchio avrebbe soffiato in faccia ai ragazzini.

E così, oggi, prima che il Sole sorgesse sulla vigilia della razzia, ho aperto il cancello dei cani e me li sono tirati dietro, lontani dalle case. Ho preso il sentiero che sale al monte che ancora le capanne dormivano. Niente giovenche, niente tori; le nevi coprono ancora gran parte dei pascoli e portarsele dietro sarebbe un rischio e una faticaccia inutile.

A mia madre Lorra ho solo detto che vado a cercare qualche spicchio nuovo di monte dove portare le bestie tra qualche giorno, quando la spalla del Busso tornerà a vestirsi di verde. Mi ha guardato con occhi complici. Lei lo sa: non è quella del pastore, la vita che voglio.

Però sa pure come essere femmina e madre.

E sa che in certe scelte non c'è da impicciarsi.

Quando i primi fumaioli cominciano a sbuffare, ho già messo dietro almeno due bivi. Ho cominciato la salita. Ombra e Fiamma mi trottano appresso. La neve addormenta gli odori e beffa pure i nasi migliori. Ci provano a fiutare. S'azzardano pure a scavare, quando capiscono dal passo che rallenta che possono permettersi di perdere tempo. Soprattutto, quando gli è chiaro che non c'è da correre, oggi. Non c'è nessun pascolo da cercare; sarebbe bastato alzare gli occhi dalla valle per vederlo. Il gelo dell'inverno ha morso stretto e duro, quest'anno: ce ne vorrà ancora perché il bianco e il ghiaccio cedano al nuovo prato.

Avevo solo bisogno di distanza. Da tutto e da tutti.

L'avranno fiutato pure loro: ecco perché cercano di starmi tra i piedi il meno possibile.

Monto il dorso ripido e prendo per il crinale che il sole, ormai, si alza rosso oltre la piana dei laghi, sul mare, dietro le vette degli Appuli.

Il sentiero delle vedette è l'unico pezzo di monte che sia venuto fuori.

Merito di tutto il fiato e il sudore persi in un intero inverno a tenerlo spalato e libero.

Quando lo imbocco, Ombra mi viene dietro rapida; Fiamma resta indietro, dubbiosa. È femmina. Ed è fulva di fuoco: fa presto a chiedersi che senso abbiano certe fatiche. Vallo a spiegare, a una bestia, cosa si senta quando a soffocarti è un pensiero, più che un paio di mani o la furia degli anni.

Fischio: deve starmi dietro, al passo.

Pure se fatica a trovare il senso di quel cammino.

La vetta di Parisse: è lì che sto andando.

Ogni Lucano ha un villaggio che chiama casa. E un Signore da rispettare. Ogni villaggio ha una valle e ogni valle ha almeno un monte. E su quel monte, ogni Signore da il nome a una terrazza da dove guardare le altre valli, gli altri boschi, le terre fino al mare.

Parisse è il Signore che Cerere e Mamerte hanno imposto a noi.

A volte gli dei sbagliano. E mi strappino il cuore dal petto se è una bestemmia.

Quando tocco il poggio della spianata e guardo attorno, tiro fiato e sento l'aria nuova raffreddarmi il petto. E scacciare la puzza di vecchio, di stantio, di marcio.

Quando mi siedo e guardo giù, la valle, i laghi e i monti in fondo, capisco perché sono scappato da casa e sono corso qui, proprio qui.

Perché pure io voglio dare il nome a una vetta, un giorno. Come Parisse e dieci e cento prima di lui. È questa la fame che mi mangia. È questa l'invidia che mi brucia. È questo il lutto che ogni giorno mi soffoca di più, si fa sempre più pesante, addosso. Un nero che si fa più buio negli occhi ogni giorno di più.

Quel Lutto mi pesa.

Ancor di più per le parole che come filo me l'hanno stretto addosso alle carni.

Vurro di Marso, Signore di genti.

A un destino così, io, non c'avevo mai nemmeno pensato.

Fino a quel sangue, fino a quel giorno, fino a questo Lutto che mi schiaccia.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora