Sento una stretta gelida sotto la scorza che mi fascia la spalla. Dita ossute, le zampe di una tarantola mi sembrano. Spigolose e pungenti, ghiacciate. Non ho bisogno di voltarmi; so bene cosa si è apparecchiato ad un palmo dalle mie spalle.
- Demonia e carogna, cos'è che vuoi?
- Che marcio peccato, Vurro. Ancora una volta, il tuo sangue e la tua carne al nemico, e i signori con le braghe al caldo, dietro le mura del villaggio.
- Taci, cagna...
Sibilo, sperando che nessuno, attorno, s'accorga delle mie labbra che si muovono. Di certo, parlando al nulla. Perchè la bastarda, figlia di Mamerte e madre di discordie e sciagure non si lascia vedere certo da tutti. Ne sono sicuro, mi è rimasta accanto per tutto il viaggio. E se n'è stata rintanata nel suo guscio marcio di odio e tragedia per tutto questo tempo. La odio. M'ha incatenato i polsi e le caviglie da che sono al mondo. E tira quelle lunghe catene muovendomi come vuole. Ogni volta. Padrone del mio sentiero, lo sono mai stato davvero? Mai. Credo mai.
- Hanno belve feroci. Visto?
Indica i molossi. Un parto dell'Eculeo che non s'era mai visto in battaglia. Di certo, non tra le nostre valli e le nostre foreste. Punta i cavalli, con le dita gelate. Anche loro non hanno mai trovato spazio sui nostri dirupi, in battaglia. E in campo aperto, certe finezze le abbiamo sempre sofferte contro quei barbari. È per questo che mai abbiamo voluto passare il confine.
- Com'è che li chiamate? Caprai... È così che chiamate le genti dell'Appulo? Caprai, dico bene?
- Questo sono, megera. Pascolano quelle bestiacce impure. Campano strizzando fuori da mammelle secche quel caglio salato. E c'impastano erbe di fosso. Vestono quei velli cordati. E scorticano quel poco di polpa da ossa torte e rinsecchite.
- Ha cari anche loro Cerere, però. E suo figlio Mamerte... Anche a loro è caro mio Padre.
- Non bestemmiare, schifosa... Non pregano il Fabbro guerriero. E non innalzano templi per la Madre feconda.
Le dita strizzano la spalla e risalgono maliarde sul collo. Le unghie lunghe e affilate disegnano solchi che non conosco sulla mia pelle. Quanto sappia usare la spada, questa figlia del Dio - sempre che non sia stato il Signore del Sotto, Euclo, invece di Mamerte, a piantarla in grembo a qualche altro abominio - non mi è stato dato mai di capirlo. Non l'ho mai vista combattere. In altre battaglie, meno onorevoli, però, questa serpe non conosce rivali. Le battaglie della carne che trema, dei sospiri affannati. O le battaglie del sotterfugio, dell'incubo e dell'inganno.
Seduce con la stessa perfidia di una lupa di primavera. Veleno sulla lingua peggio degli aspidi con la testa più puntuta. E quando le unghie sono tutte e dieci a disegnare una corona tra collo e lobi delle orecchie, stringe appena la presa per regalarmi un tremore profondo lungo la schiena. E tra fiati ovattati, soffia un velo che mi avvolge dalla nuca fin sugli occhi. E il mondo di colpo prende un colore diverso. E sul Cerchio santo dei Signori e dei Lucani, sulle facce di tutti quei fratelli, si stende un nero di tenebra. Che un attimo dopo si colora di luci diverse, facce diverse, voci diverse.
Caprai. Bastardi.
La demonia schifosa è questa visione che mi butta sotto gli occhi.
Sono stretti in un gruppo veloce, quelli che vedo per primi. Due di loro montano in groppa a destrieri neri. Zoccoli e zampe possenti, groppe nutrite e tese, gonfie nello sforzo. Più scorze sulle cavalcature che sui due che le conducono, come se per loro fosse la bestia, quella da salvare. Ostili, volgari. Maneggiano i murgiani con le dita della destra strette nella criniera, e la destra la tengono a offesa su lance corte e robuste. Stanno in groppa a quei cavalli reggendosi a perno sulle gambe, i talloni a stringere il fianco e pungere la bestia per spingerla in carica.
Tutt'attorno, in quattro, procedono a piedi. Tra le mani hanno lame curve e robuste. Puntute, a doppio filo. Le impugnano alla rovescia, col concavo snudato in avanti. Come fossero falci. E nessuno scudo. Attorno ai polsi, come le serpi che la demonia si porta arrotolate sulle braccia, cordazze a stringere il collo di cagnacci sputati fuori da un incubo. Teste quadrate, mascelle robuste. E la stazza, ciascuno, di due dei più valenti tra i lupi dei nostri boschi. Hanno il colore della notte e occhi di fiamma. E denti volgari più degli zifi più affilati. Solo le cosce orribili dell'Orrido, possono aver sputato fuori bestie del genere.
Dietro, in ordine sparso, una decina di altri caprai. Piedi nudi, poco cuoio a proteggere. Hanno zifi magri, puntuti come spiedi, senza guardie a dividere lama e impugnatura.Loro, sì, portano appresso, a sinistra, uno scudo tondo. Legno e giro di ferro, attorno. Difesa e offesa, quando la lama si perde, si spezza. Perchè sul campo, gli appiedati, spesso devono fare con quel che ti resta tra le mani.
- Guardali, Vurro. Ammira l'ordine...
- Barbari, ostili!
Mi scuote il disgusto. E una domanda. Cos'è che vuole questa cagna dell'Orrido, da me. Perchè vuole che guardi queste furie senza dei e senza onore? Perchè pretende li apprezzi?
- Chieditelo davvero.
- Cosa?
- Davvero credi che se non fossero cari nel cuore a Mamerte, avanzerebbero così sicuri e pronti? Suoi figli. Suoi figli diletti.
- Non bestemmiare, se davvero Mamerte t'è padre... Lodare questi empi è una bestemmia dalla bocca della figlia del Dio.
- Povera cosa triste, che ti sei ridotto ad essere!
Sulla piana, sotto i miei occhi, un drappello di tarantini. Il delfino dipinto sui loro scudi non lascia dubbi. Nè i crini tinti a rosso dei loro elmi. Urlano stretti attorno, le dita a strozzare i pomi delle loro lame, il fiato della furia che garrisce intorno. E d'un tratto, sciolti come ossessi, sono i caprai a caricare.
Scattano all'ordine di uno dei cavalieri, schioccato nella lingua degli Appuli.
Ha trecce strette e cordate per capelli, mento appuntito e occhi stretti, tirati a forza di lato. Di un grigio che sembra ghiaccio. In faccia e sul corpo, i segni e la tintura di guerra di quei barbari, sangue di buoi sgozzati alla luce del fuoco, sotto lune mozzate e lontano dai templi.
Scattano furibondi, i caprai. Senza temere lo scontro. Anzi, cercandolo. I molossi sono i primi a sgroppare, con le mascelle pronte a schioccare ai calcagni delle prime file nemiche. E mentre i tarantini pensano a quelle bestie infernali che divorano lo spazio tra loro e snudano le fauci, i due cavalieri appuli sono partiti, le lance incassate nell'incavo delle ascelle e i talloni a strizzare i fianchi dei murgiani.
L'urto è un clangore che non lascia scampo. Quando i caprai a piedi arrivano, con le lame assetate, l'ordine rigido degli opliti di Taras è solo un felice ricordo. La prima fila è già a terra che rantola sotto i morsi infernali dei molossi. E due o tre dei migliori, giacciono già col petto trafitto e le aste delle lance che gli scorrono in petto, mentre si accasciano al suolo. È solo terrore, è solo sgomento. Passare gli altri a filo di spada e sfasciare le loro teste a colpi di scudo è lavoro facile, spiccio. È questione di respiri, e per terra è solo sangue e sciagura per gli opliti di Taras.
- Se non è questo, caro a Mamerte...
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Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1
FantasyBoschi dell'Italia meridionale. A spanne e braccia, gli stessi anni in cui Roma veniva fondata. Queste le coordinate di spazio e tempo. I Lucani sono un popolo di guerrieri feroci che abita la terra compresa tra il fiume Bradano e le coste del Tirre...