Arpiono le ossicine. Faccio forza.
Tiro fuori senza nessuna grazia. Tenaglie che strappano. Lì dentro, solo erbacce da estirpare.
Buda ringhia fuori un ultimo grido disperato, poi s'accascia. I talloni danno un ultimo spasimo feroce, uno schiaffo con la pianta del piede destro. Poi scivola giù, tirandosi appresso il mantello.
Non riesco, non riesco ad abbassare gli occhi e cercare quelli della creatura che mi si dimena tra le dita. So solo che sembra non pesare niente. So solo che ha dentro una forza che credevo impensabile per un essere delle sue dimensioni.
Dimena quelle ossa, tende i muscoli. E continua a mordere. Con denti che non dovrebbe avere, con una bocca irta di schegge infinitesimali che mi s'appuntano sulle dita. Per ogni morso, la sensazione sgradevole di qualcosa che succhi, qualcosa che si attacchi alla pelle per non lasciare indietro nemmeno una goccia.
Metto gli occhi in faccia alla mia donna, quasi svenuta sul giaciglio.
Mi guarda con una domanda che non ha forza di pronunciare.
Le rispondo con un cenno del capo, uno solo.
Scuoto la testa, anche di fronte alle lacrime che lascia piovere senza avere nemmeno la forza di piangere davvero. Scuoto la testa, perché so che una belva del genere non può avere futuro.
- Ma io lo sento... Il suo pianto... Lo sento!
Non faccio un fiato, mentre mi sollevo e con l'altra mano raccolgo il mantello da terra.
Avvolgo la stoffa attorno a quell'abominio che non voglio nemmeno guardare.
Avvolgo, stringo forte.
- Non puoi sentirlo. Non ha fatto nemmeno un fiato... Sono gli dei, Buda.
- Ma io...
No, non le lascio nemmeno il tempo di completare la frase.
- Sono gli dei: è la pena per il tuo dolore. È la buona Cerere che piange con te.
Serro con un altro giro di stoffa. Avvolgo la testa, sperando che l'aria gli manchi.
Serro forte, finché i suoi vagiti non sono solo un flebile sussurro. Qualcosa che si possa nascondere sotto uno schiocco di passo.
- Resisti, Buda. Il tempo di portarlo alle grotte...
Dal pagliericcio prova ancora ad alzare un braccio. Cerca di sfiorarmi con quelle dita di cera. Cerca di accarezzarmi il cuore, magari perché io glielo mostri una volta, una sola.
Mi tengo a distanza, inforco la porta e chiamo forte. Chiamo le due vecchie, perché aiutino quella poveraccia a pulirsi, trovare pace. Stringo più forte, perché quella creatura non sappia neppure muoversi.
Sfilo piano, fuori dal recinto, oltre gli stabulari. Vacche e vitelli si scansano, muggiscono di paura. Perché l'odore che sbuffa fuori da quel fagotto è olezzo di morte. Non smette di dimenarsi, tra le giravolte della stoffa, quella carogna. Continua a sgusciare fuori, continua a gettare qua e là morsi alla cieca nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa da straziare. A qualcosa da succhiare.
Alzo il passo.
Evito il cerchio delle piere, evito i sentieri delle altre case. Provo a indovinare il passo di ciascuna delle sagome che incrocio, per evitare di vedermele sfilare vicino. Perché ho il terrore che ciascuna di loro possa leggere un sussulto.
Nessuno; nessuno deve sapere. Nessuno deve sentire.
Inforco il sentiero oltre le ultime case. Prendo la strada che porta ai boschi, verso le grotte di Euclo. È lì che lo getterò. Nell'orrido che si apre come una gola nella terra.
Una gola assetata di respiri, una bocca affamata di corpi e di morte. Nei crepacci che scendono giù al mondo di sotto: lì è l'unico luogo dove gettarla questa bestia immonda che non ha nulla di umano.
Muovo passi veloci. E mentre un piede segue l'altro, l'unico suono che continuo a sentire è il lamento straziante che sale dal fagotto. Serro le mani.
- Muori, bestemmia. Muori!
Non riesco a trovargli la gola. Non riesco a serrare le dita. È come se qualcosa, ogni volta, facesse scivolare via dalla presa quel corpo osceno. Ed è in quell'istante preciso che mi accorgo di non essere solo. Perché dietro, a pochi passi dai miei talloni, sento un altro scalpiccio. Come fosse l'eco discreta dei miei passi sull'erba e sulle selci del sentiero.
Non mi volto.
Non è il coraggio che mi manca, se tiro dritto senza guardare. So chi mi segue; solo questo.
È la voce di corvo a farsi di nuovo sentire, oltre lo scrocchio delle pietrine sotto i calzari.
- Le grotte di Euclo? È lì che vai?
Niente, nemmeno un fiato. Nessuna soddisfazione per la demonia che non smette di perseguitarmi.
- Le porte al mondo di sotto le hai lasciate indietro da un pezzo!
Non rispondo. Non posso, non voglio rispondere.
Alzo gli occhi. Il crocicchio che conduce alla gola, in effetti, doveva già essere pronto a sfilarmi. Alzo lo sguardo oltre l'orizzonte, verso il cielo. La volta è bruna di sangue, rossa di tramonto. Da quanto? Da quanto tempo sto camminando?
- Ancora un sortilegio dei tuoi, demonia?
- Che tu voglia crederlo o no, io non ho colpe. Nessuno ha colpe, Vurro. Nessuno eccetto te.
Non riesco più a resistere. Devo voltarmi. Devo.
E quando la ritrovo davanti, solo allora mi rendo conto che è immobile vicino ad un altro crocicchio, poco più indietro.
E la memoria mi rimette sotto gli occhi scene antiche.
E la sagoma di quell'essere spregevole, adesso, è già mutata. Dimentica delle vecchie forme, degli abiti conosciuti. Non è più la demonia con un cranio al posto della corona, ad essere ferma lì, accanto ai tabernacoli sacri dei viandanti. Adesso è il corpo forte di Marso. E la sua gola tagliata, le sue viscere, tenute esposte con entrambe le mani.
- Sei padre, Vurro. Quello che hai tra le mani ti tocca, come figlio.
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Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1
FantasyBoschi dell'Italia meridionale. A spanne e braccia, gli stessi anni in cui Roma veniva fondata. Queste le coordinate di spazio e tempo. I Lucani sono un popolo di guerrieri feroci che abita la terra compresa tra il fiume Bradano e le coste del Tirre...