Ostili (3)

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Ci muoviamo proseguendo il cammino. Anche di notte. Un giorno intero, anche più, ci divide dalla Signora dei Lucani, dalle mura di Grumentum. Quando il peso di Murajo, diviso addosso in spalla a noi Figli, si fa insostenibile, siamo forzati ad accettare brevi pause. Le marce serrate questo sono, del resto. Ho ginocchia che conoscono questa fatica. E spalle forti, proprio come Aurio.

Parisse ciancia, Manterio dalla bocca caccia solo il fumo di cento sbuffate, il fiato della fatica. Ed è il primo, ogni volta, a chiedere requie dall'azzardo. Cagne molli, il Signore e suo figlio. E un vecchio troppo cieco per rendersene conto, dalla groppa di ciascuno di noi, lì, che vaticina quanto cari siamo a Cerere, visto il sangue che ci comanda.

Mastico amaro. Ma so che ogni passo, per quanti uncini mi si conficchino a fatica nelle ginocchia, alleggerisce il peso di queste chiacchiere. Di queste umiliazioni.

Se davvero sono caro a Mamerte, perchè il Dio dei martelli e delle roncole non fa pioverci in testa una buona ragione per scatenare la guerra e fare sangue?

Perchè non soffia fuori dalle viscere uno scoppio di fuoco e terrore?

Le urla della Terra sono il respiro di Mamerte, il sangue è acqua che lava i popoli e le genti. Una guerra ci vorrebbe, a trascinarci tutti in battaglia. Per guardare quelle due cagne di Parisse e Materio crepare. E mettermi al centro del Cerchio, da Signore.

Tocca pregare questo, notte e giorno, visto che Murajo non vuole risolversi a sciogliermi le catene e permettermi di tracciare altrove il mio Cerchio.

Passiamo al guado l'Acrio che è già rosa d'aurora, il cielo. Aurio piglia in spalla il Vecchio per l'ultimo tratto. Le querce diradano e tra le cime intuiamo forti le volute del fumo bianco che garriscono. Mille passi, qualcosa di più, forse. Poi traverseremo le mura. E per terra, i segni di altri prima dei noi, il macinare di zolle degli zoccoli, gli arbusti e i polloni spezzati. Siamo tra i villaggi più lontani, di sicuro tutti staranno aspettando noi e pochi altri. Sempre che tutte le vedette spedite a forza di piedi e polmoni a chiamarci a raccolta siano arrivate a destinazione e abbiano vinto il freddo, la notte del bosco, la fatica.

La grande porta è spalancata. Un drappello di fratelli grumentini, in scorze lucide e roncole snudate, ci lascia passare. Qualche faccia mi saluta familiare, che tra muscoli di scorta alle carovane e ai mercati si fa sempre in tempo a riconoscersi. Poco tempo per gli abbracci e le mani sui polsi. Poco tempo per raccontarsi gesta o nascondersi miserie. Il Cerchio dei Lucani ci attende, ai piedi del santuario di Cerere.

Resto indietro con Aurio e Variano; i finti onori con cui Parisse si fa lustrare i calzari mi danno il voltastomaco. Prendiamo posto sui tronchi più esterni, noi. Braccia buone per fare la guerra, lingue poco nobili per pigliare parola.

Tra levate del fumo delle querce e litanie mandate a memoria dalle Vergini della dea Cerere, si fa strada Palnio, il Vecchio di Grumentum, il Veggente più anziano che i Lucani abbiano in terra. Quello che ha guardato a fondo nelle grotte di Euclo e senza una guida è disceso e tornato. Senza che la morte e i supplizi dell'Orrido lo avessero divorato. Ne ha viste alcune in più, di primavere, rispetto al nostro Murajo, ma ha pelle ancora tesa e labbra taglienti, veloci. Ha voce di tuono, quando sbatte in terra la verga, come dovesse scacciare via lo strisciare assassino di una vipera. Pretende silenzio. E tutti, nello stesso respiro, serriamo le labbra.

Anche io, che i Vecchi a volte li schiaccerei sotto i calzari per le catene che ti impongono ai polsi e i basti con cui ti caricano il respiro, d'istinto, a quel gesto che è più forte di mille roncole sbattute sulla testa, abbasso gli occhi e sento le dita tremare, aggrappate alle ginocchia.

Urla severe, e voce rapida, che da un corpo così non sapresti aspettarti.

Tra gli scoppi d'ira della sua voce, il rimprovero e il biasimo a tutti i Signori, che da primavere non hanno voluto affrontare il problema. E feroce, subito dopo, il racconto di quel che è successo.

- Me l'ha urlato in sogno Mephti, la Dea delle acque, livida di vergogna, con le vesti lordate di sterco e logore di offese. Me l'ha urlato Cerere. E piangeva sangue. E ai piedi aveva grovigli di serpi e tarantole. Vergogna, su tutti noi!

Quel che racconta, dopo qualche sospiro, lo soffia in faccia e negli occhi a tutti noi. E ci basta serrare le palpebre, per vederlo come se fossimo stati lì. Istante per istante, respiro per respiro.

Sono calati al grande lago che era già mattino. E il sole spaccava in mille frammenti d'oro il pelo dell'acqua.

Per primi i loro figli, a frotte.

Vestiti del vello arruffato delle capre, i piedi nudi, neri di terra e spaccati di sangue e di freddo. Bestie che non conoscono i calzari e spicciano percorsi nemmeno avessero zoccoli. Hanno sciamato urlando. Bestemmiando al silenzio sacro di quelle acque e del tempio di Mephti. E quando le serve delle acque gli si sono fatti incontro, pregando rispetto con le ginocchia per terra, le hanno irrise, superate, offese. Hanno continuato la marcia, passando di fianco a quei corpi piegati che chiedevano solo rispetto. E già dal limitare del noccioleto, stonati, i campanacci al collo delle loro capre migliori.

Quelle bestie sozze si sono sparse sulla piana sacra che abbraccia il lago. Hanno fatto scempio con i loro zoccoli putridi dei fuochi sacri, del profumo della cenere, del disegno perfetto dei fuochi.

I bastoni dei caprai, poco dietro, hanno sospinto quelle empietà a ripulirsi i bargigli nella pozza sacra. A insozzare le acque con la loro saliva di sterco e veleno. E quando le serve delle acque hanno provato a correre indietro, a scacciarle, lo stesso bastone con cui quei vecchi debosciati spingevano le bestie avanti si è abbattuto sulle loro schiene.

Pestate.

Ogni colpo una bestemmia feroce in cuore alla Dea.

Ogni colpo, uno sputo denso di male nel grembo cristallino di Mephti.

Urlavano, le figlie delle acque. Calpestate. E quelle grida disperate la dea le ha spinte soffiando la brezza fino alla vedetta sul passo. Tutti e dieci i nostri guerrieri sono scesi di corsa. Calzando le scorze mentre macinavano una falcata dietro l'altra, le roncole nude e lucenti strette nei pugni.

Ma il sentiero era lungo. E i sassi sul cammino troppi.

Le urla tristi hanno mutato pelle.

Grida disperate.

Perchè dopo le bestie, dopo i caprai, dopo i ragazzetti, sulla piana sono comparsi i guerrieri. Dieci in carica, sugli zoccoli furibondi delle loro cavalcature.

Tre volte quei dieci, in corsa, tirandosi appresso, a catena, i cagnacci feroci.

Qualcuna delle figlie, più fortunata, s'è vista passare il petto e il ventre dalle lance di quei selvaggi, prima di finire macinata dalla furia delle loro cavalcature e trascinata come un vello strappato fin dentro il lago.

Altre sono finite sotto le zanne assetate di sangue dei loro mastini.

Nemmeno negli orridi peggiori, Euclo vorrebbe a guardia bestie del genere. Muscoli e nervi e sete di sangue da spaccare da soli anche i lupi più forti. Hanno quel brutto vizio, quei pascolatori di capre: sciogliere i cani, prima di avanzare. Lasciano all'urto delle loro cariche e al ferro dei loro denti il primo sangue.

Quando i dieci fratelli sono arrivati sulla radura, lo scempio era quasi concluso.

Capre calate nel lago fino ai garretti. E quegli empi a sciacquarsi le vergogne, abbeverare le bestie, riempire gli otri. Il tempio saccheggiato, con qualcuno dei loro giovani che gareggiava per essere il primo a metterlo a fuoco.

La statua della due, i piatti del latte e dei doni, rovesciati a terra e trafugati.

Tra i cavalieri, qualcuno si era issato in groppa le serve più giovani, scampate al massacro. Altri due o tre, tra i canali, a piedi, si giocavano l'onore di qualcun'altra sfuggita alle cariche e alle mascelle dei mastini.

Quei dieci fratelli hanno lottato anche con le pance snudate a sangue, i petti trafitti. Hanno buttato fendenti di roncola anche schiacciati dagli zoccoli di quei cavalli, mentre i molossi se li slabbravano da braccia e gambe. Hanno potuto poco. E non è durato poco il loro supplizio.

Palnio crolla, ginocchia al limitare del fuoco sacro, su queste ultime scene.

E tutti, ben distinto, riusciamo ad ascoltare solo il digrignare di rabbia dei nostri denti.

È l'ultima offesa, questa.

E la voce di Mephti, adesso, chiama sangue.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora