Sia quel che deve essere fatto (4)

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Precipito.

Un attimo che sembra un'eternità.

Scivolo ancora più in basso.

Volo giù, risucchiato adesso da una forza indicibile che mi agguanta forte dai fianchi e mi tira in fondo. Senza che io possa liberarmi dalla morsa. Senza che abbia il tempo di trovare un appiglio cui artigliare unghie e dita. Senza nemmeno che io faccia in tempo a prendere un respiro.

Perché quell'attimo sembra un' eternità, ma è solo un battito del cuore.

Precipito e mi schianto.

Di colpo. E lo spavento mi fa rimbalzare. E riesco a malapena a piantare a terra i palmi delle mani che mi scopro a boccheggiare con le labbra impastate di terra umida e qualche ciuffo d'erba ferrigna incastrato tra i denti e il muso.

Ogni respiro solleva polvere e me la caccia nel naso.

Brucia.

Faccio forza, provo a rialzarmi.

La testa sembra un macigno impiccato attorno al collo.

Stringo i denti e mi metto in ginocchio.

Il fuoco, di fronte, s'è ridotto ad una brace scura che sbuffa. Ho il fiato corto; non basta nemmeno a far rivivere i tizzoni, a farli respirare.

Dal buio, oltre il poco fumo che si alza, i contorni difficili di qualcosa che si muove solo impercettibilmente. Col ritmo lento dei respiri di una belva.

- Bentronata cagna.

La voce oltre il cerchio del fuoco è un rantolo di catarro e perfidia. Chi si nasconde lì dietro, nell'ombra, ha il timbro scuro di un uomo. Più lo guardo, più provo a studiarne forma e contorni, più sospetto che sia solo il suono ad essere rimasto umano, in quell'essere.

Striscio il ginocchio in avanti. Getto indietro lo sguardo quel tanto che basta a ritrovare il manico della roncola.

Il mostro, lì davanti, appoggia quelle che sembrano zampe più che mani sulle ginocchia e si solleva. Piano, con una indolenza che ha del volgare. Con uno sbuffo che sa di provocazione e di rispetto da ciancicare sotto i calzari.

- Tranquilla cagnetta: ci metterò poco, promesso!

La risata che scoppia subito dopo quelle parole spazza via in un soffio tutta la lascivia volgare della frase appena sussurrata. La sagoma si solleva; me la ritrovo davanti imponente a nascondere i profili accennati della foresta. L'abominio muove alcuni passi, calpesta il braciere come fosse sabbia e solleva entrambe le braccia incrociandole sul petto con uno scrocchio d'ossa e uno scatto di tendini.

Contro il velo scuro del cielo, schiarito appena dalla falce di luna, l'essere svela le corna torte e nodose di un ariete; gli avvolgono mezza spira ciascuna attorno alla testa, come fossero tutt'uno con le mascelle. Solo il tempo di qualche altro passo, e quello che ho davanti è il suo grugno. E sento di colpo vacillare le gambe e sudare i palmi così tanto che serro le dita più forte, attorno al manico d'osso della roncola, per non farla scivolare.

Puzza di sangue quella creatura d'incubo.

Puzza di sangue e di sterco.

Negli occhi, incendiati di furia e fame, la stessa luce folle e disperata di Marso. Nient'altro, in quel muso, è rimasto umano. Le ossa robuste sotto la gobba adunca del naso sono quelle di un muflone; pelo, zanne, orecchie, sono quelle di un lupo.

Eppure, è quella di Marso, lì dentro, la voce.

- Forza cagnetta, avanti!

Scarto col tallone di un palmo indietro; è enorme, quell'abominio.

Tanto grosso da sovrastarmi. Tanto imponente da scoraggiare qualsiasi sortita.

È la bestia, allora, a lanciarsi contro di me. Tanto spavalda da allargare le braccia e sollevare i pugni furiosi oltre la testa, oltre il giro delle corna. ùLa ferocia di quei colpi mi piove addosso con lo schianto del tuono.

Il sinistro, che sollevo a scudo, crolla come staccato dalla spalla. È pura fortuna, istinto, se appena un attimo prima ho frustato col collo a destra per evitare l'impatto. La roncola mi resta in mano solo perchè appena l'ho avuta tra le mani, ho ricordato di allacciare il cuoio al polso.

La presa, però, è persa; la lama penzola impazzita raschiandomi la coscia.

Il mostro mi spinge indietro, schiantandomi contro le pietre del cerchio. Torna ad avanzarmi davanti, più lento. Il ghigno con cui pregusta il sangue mi raggela.

- Che ti dicevo? Non sarai mai un guerriero. E non sarai mai un uomo.

Gli artigli, le dita, le mani possenti, si sollevano e mi puntano collo e stomaco.

Chiudo gli occhi.

Prego che la bestia la smetta di giocare. Prego che faccia subito quello che deve.

E quando riapro gli occhi, dopo attimi che sembrano eterni, me la ritrovo di fronte.

Schiuma bile, sputa bestemmie.

Eppure...

Eppure ancora una volta, invece di colpire duro e mettere fine al gioco, schianta una manata che mi travolge come il vento dei monti.

Mi sbalza di lato, barcollo.

E mi ritrovo bocconi. La roncola... La roncola è tornata a portata di mano. E quando di nuovo i passi di quel mostro tornano a farsi vicini, quando la voce di Marso ricomincia a insultarmi e provocare, mi rendo conto che se proprio si deve morire, tanto vale provare.

Serro le dita attorno all'arma, la strofino per terra fino a ritrovarmela di fianco.

Il dolore lancinante al fianco è lo zoccolo che mi investe sotto il costato e mi ribalta con la faccia sotto il cielo.

- Vali niente, cagna!

Quella forma spaventosa che avvolge Marso mi si lancia addosso col balzo di una bestia della foresta. Non ho nemmeno idea di quale sia la forza che mi ispira la mano. So solo che la destra m'impazzisce. Si inerpica in uno scatto violento. Ed è un battito solo di ciglia, forse nemmeno quello, e finalmente il contraccolpo del peso di quell'abominio mi schiaccia la spalla a terra. La mia lama, però, affonda, buca la carne e sfrega tra muscoli e budella, friggendogli contro una vertebra.

L'urlo folle di quell'orrore mi scoppia contro i timpani, mentre il polso finisce per annegare nello strappo. Sangue che puzza, sangue rivoltante, una cloaca che mi piove addosso.

E quando mi ritrovo quel muso storpiato dal dolore a un palmo dal viso, di colpo il pelo è come caduto via. S'è rifatto barba: la stessa barba rada di Marso.

Non ha più mascelle squadrate, muscoli forti ad incorniciare il viso. Quelli che si contraggono folli di dolore, poco oltre le orecchie, sono quelli che ho visto pulsare mille e mille volte sulla faccia di mio padre.

In bocca, però, ora sento un sapore ferroso diverso.

E sento caldo, sul viso, sul collo, oltre la bocca dello stomaco.

Il sangue di mio padre.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora