Il Divo bastardo (1)

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Ci separiamo da tutti gli altri al nostro crocicchio. M'attardo. Fisso le pietre che delimitano il bivio, quelle che mi suggeriscono la via di Bantia, la strada di casa. Lascio che Marno e Aurio mi sfilino davanti. Aspetto che Dello, più indietro, mi superi. La schiava, accanto, ha imparato in queste ore a rispettare il mio passo e sembra gelata. Con la sua pelle tesa e la sua carne gonfia in bocca, il fagotto, almeno, ha smesso di latrare. Non era un pianto il suo.

- Non mi aspettate...

Poi, con lo schiocco della lingua, sputo un ordine appena alla ostile che mi ciondola di fianco.

- Da qua quel coso...

Scambio il cesto coi cani con la palla di cenci che sembra dormire. Faccio solo in tempo a guardare il seno gonfio della schiava: dal cerchio bruno stilla il sangue di un succhiare affamato, disperato. Quello di Buda, a confronto, pare il petto di una vecchia avvizzita. Mi piglia una voglia strana, furiosa, di godermi il piacere che mi nego dall'ultima volta che ho piantato il seme nel ventre marcio della mia donna. Scaccio quel desiderio rancido con la pedata che si riserva alle bestie e mi chino col fagotto stretto nella destra.

Snudo il piccolo e poggio la pelle di sangue e latte della sua schiena sul sasso che fa da base al tumulo caro ad Ekat. Perchè la dea dei sentieri ci ha tenuta sicura la via. Più ancora, perchè tra tante, le scelte che mi ha soffiato nell'orecchio sono state quelle giuste, quelle salve lontane dal pericolo. Se siamo tornati indietro, di sicuro, è merito delle sue parole. E merita la giusta ricompensa, la dea.

Quel corpicino piglia ad agitarsi; le pietre, lì sotto, pungono di gelo e di una durezza che fino ad allora, forse, la sua schiena non aveva mai conosciuto. Nemmeno nella trogola dei porci. Lo tengo fermo col palmo sinistro premuto sulla pancia. Quel tanto che basta a non soffocarlo o schiacciarlo come quel che non pesa niente. La destra sfila la roncola dalla cinta. Fa balenare il filo della lama sotto la luce rossa del sole che muore. Poggia il ferro alla gola di quell'essere che torna a dimenarsi, strettirà in una morsa che non vuole conoscere.

- Tautor...

E giù un biascicare disperato che non capisco. Solo una cosa so: Tautor per gli ostili è il nome di Euclo, signore dell'Orrido e del mondo di sotto.

- Shhhh

Faccio scivolare piano quell'invito al silenzio. Piano abbastanza da non disturbare la dea. Chiaro abbastanza perchè quella schiava, di fianco, si cucia la bocca. Non la smette, la cagna.

- Taci, schifosa!

Poi, un poco più piano.

- Taci...

È un attimo, il tempo di un solo respiro, e senza premere troppo lascio la lama scorrere di striscio sul petto di quella creatura. Un taglio sottile, che nemmeno divide i lembi della pelle. Uno sbrego buono solo a stillare qualche goccia di sangue. Alla dea non serve altro. Ekat è parca, quando guarda ai doni che lasciamo.

Osservo quelle poche gocce scivolare giù sulla pancia morbida, tenera. Guardo il rivoletto perdersi nelle pieghe della pelle, della fame, spinta giù dalla furia del pianto e dal tremito del freddo. Aspetto solo che tre o quattro gocce piovano sul macigno, prima di ricoprirlo e scambiarlo di nuovo col cesto. Rimetto gli occhi in faccia a quella vergogna, bevo il suo terrore e mangio i suoi brividi.

- Non ti ho salvato la cotenna per lasciarti il potere di dire qualcosa. Non se non te lo comando.

Preme lo sguardo sulla punta dei piedi.

- Hai capito quello che ho detto?

Annuisce appena, divorata dal terrore.

- Torna a farlo mangiare. La tua carne lo calma, il tuo sangue lo sazia. E prega gli dei che ti sono cari che non faccia più un fiato fino a che non saremo a Bantia.

Lo riporta al seno, ubbidendo senza fare un fiato. Senza nemmeno il coraggio di rialzare gli occhi. La spingo avanti con una pedata sul sedere nudo. Guardarla incedere di qualche passo davanti a me mi lascia sotto gli occhi la schiena nuda, il gioco delle vertebre, la carne soda e la pelle tesa. Finisco a chiedermi cosa mi si infili in testa e chi stia soffiando nei miei pensieri col vento caldo e forte del desiderio, quando mi sento duro e affamato, sotto la cinta. Ha meno lune di Buda e forme più gentili coi miei desideri.

- Solo un altro figlio bastardo...

Quanto vorrei fossero le parole della demonia. Questa volta no. Questa volta è la mia di voce che sospira poco fuori dalle labbra. Sì che potrei. Buda e questa cagna sono pari. Lucane non lo sono entrambe. Schiave tutte e due. Nessuno potrebbe opporsi. Quella ostile parla pure la lingua delle genti del bosco, capisce i nostri suoni. E Buda, forse, nemmeno se ne accorgerebbe, se di notte gliela trascinassi di fianco e le piantassi in grembo il mio seme.

Scuoto via la testa, scaccio i pensieri. Impura: quella schifosa ha sangue lercio, l'hanno avuta i nasoni, ha figliato per le genti del Sannio.

- Sono caro a Mamerte. Vurro, signore di genti... Un figlio ce l'ho...

Il fumo del fuoco di Bantia adesso si scorge nella luce scura della sera, tra le chiome dei noccioli. Il pianto di quell'essere si è smorzato.

- A nutrirlo sei capace, almeno...

- Non basta il sangue, Signore.

Non le rispondo. Alzo il passo e le serro la nuca tra le dita. Forte, perchè capisca, come le bestie sotto il morso delle madri.

- Bada che gli basti. Notte e giorno, schifosa.

Non mi guarda. È tornata a tremare. Serro più forte. Tiro, perchè il dolore la convinca a guardarmi in faccia. E quando ho i suoi occhi di fronte, senza lasciare tempo di capire, apro le bocca e le mordo il labbro. Sento la carne tenera sotto i denti e digrigno. Per spaccarla e farla sanguinare. Come fosse un bacio feroce, la tengo ferma, attaccata.

Quando mi stacco, sputo il sangue troppo caldo e salato. Ha il gusto della Zidera: ferro e sale.

- A questo servi. A questo serve il tuo sangue.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora