Il Divo bastardo (4)

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L'Orrido è lì sotto. S'apre come la gola di una carogna in mezzo alle rocce spaccate di un monte. Un cunicolo nero che s'infila fino a perdere la luce. Nemmeno una torcia m'hanno dato. Che chi scende nel mondo sotto la terra non può chiedere aiuto ed è solo con Euclo e i suoi servitori.

Solo il tempo di prendere un fusto secco abbastanza e rigirargli sopra uno sbrigo del cencio che mi copre. L'ho acceso al cerchio del villaggio. L'ho tenuto alto, diritto, la testa lontana dal suolo, perchè avvampasse più lentamente. E perchè non solo quello straccio pigliasse fiamma, ma si arrostisse e facesse fuoco pure il legno di sotto.

Scendo nella spacca che si apre a cento passi nel bosco.

Freddo.

Un freddo gelido che ti si brina addosso. T'imperla e t'ammanta come una seconda pelle.

Umido.

Di respiri dei servitori di Euclo, del fiato del signore dell'Orrido.

Muovo i passi incerti tenendo la fiamma a una spanna dal muso, perchè quel poco di luce mi guidi nei passi. C'è un solo tratto che scende. Sotto le piante nude dei piedi, ancora, l'aspro della terra che s'è fatta dura, impastata dell'acqua che stilla dalle pareti.

Quando di fronte la gola si biforca, un tratto scende, l'altro s'infila in pari al mio piede e curva a destra, facendosi più scura, facendosi tenebra oltre il gomito che la fiamma mi lascia intuire.

L'Orrido è il mondo di sotto. Tocca scendere.

Prima di scegliere per quel braccio, mi volto indietro a cercare forse per l'ultima volta la luce. Solo per accorgermi che il mondo, dietro, s'è già chiuso. E da sopra non soffia più nemmeno un alito di luce. Come se Euclo avesse serrato le sue fauci da demonio. E stesse solo aspettando il respiro giusto per cominciare a masticarmi.

Avanzo. La via scelta non ha curve, né bivi, né pietre di Ekat a suggerire il cammino. Non ho mosso passi da tanto che mi pare di vedere qualcosa, oltre il bagliore della mia fiamma. Come se più in fondo, dietro le pietre aspre che fanno breccia nel buio, ci fosse luce. Come se lì giù, ci fosse vita.

Sotto i miei passi, fiochi, respiri e rumori timidi. Di chi trema a far sentire la propria voce. E quell'albeggiare innaturale che si fa sempre più chiaro, ogni passo che muovo.

La vena nera che sto discendendo si apre di fronte. Come fosse un'ansa in quella gola. Curva gentile e crea uno spazio. Crea giacigli e quel che basta per stare in piedi vicini in tre o quattro. Da respiro a rocce che sono diventate giacigli. Letti aspri per torsi di carne e ossa che in quell'antro hanno trovato dimora. Si muovono nudi, cedono il passo, facendosi seconda pelle per le rocce tra le quali scivolo.

Teschi di bestia rovesciati fanno da coppa per piccoli fuochi accesi con quel che si strappa al bosco. Per terra le ossa e la carne stopposa, rancida, di un pasto frugale. Nuguli di mosche. E la voce di quelle creature che non mi guardano e nascondono nell'incavo delle ascelle il viso. Voce roca, lingue che non conosco, suoni che fanno tremare.

Sono questi i derelitti dell'Orrido? Così sono gli schiavi di Euclo? Simulacri di una umanità consumata come sterpi sul fuoco?

Mettono tristezza, nella sciagura che gli si legge addosso. Mentre supero quell'ansa e mi rituffo alla gola che continua a scendere, solo allora m'accorgo di una di quelle creature, gettate in terra, che per parte mi sbarra il passo. Tira al petto le gambe rinsecchite. Ha la pelle diafana e piaghe nere a farla marcire per macchie di cui non riconosco la logica. Sibila e squittisce, come serpe e topo. Come le bestie che sole, qui sotto, possono farle compagnia. Oppure sfamarla, se la fortuna sorride.

Scivolo più sotto.

Cado. Il piede scalpiccia sul fondo che adesso non è più terra, ma roccia lisciata dal lavoro dell'acqua che piange dalle pareti.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora