Caro a Mamerte (4)

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Mi lancio in avanti. Sollevo la lama e mulino arrivando sotto il cavallo. Fiamma scarta tra gli zoccoli e punta bassa verso il sannita per terra, dietro. Gli arriva in corsa addosso, investendolo col muso basso a cercare subito il ventre molle, le viscere sugose. Io, col ronzino che si dimena per scrollarsi Ombra dal muso e il cavaliere che cerca tragicamente di tenersi dritto su quella groppa e colpire il lupo di fronte, ho tutto il fianco della cavalcatura libero.

Libero, nudo, indifeso.

Carico e allargo il destro per abbatterlo di taglio sulla gamba del sannita. E mentre avverto la spalla contrarsi e l'acciaio correre alla carne e alle ossa del nemico, mi rombo un ordine dentro. Come il tuono che scoppia un attimo dopo il fulmine.

- Non chiudere gli occhi, Vurro. Guarda. Non chiudere gli occhi!

Lo schianto mi scuote il braccio, la spalla, il petto.

La lama pesante impatta proprio sul ginocchio del cavaliere. L'urlo esplode da qualche parte sopra la testa. Il sangue spruzza fuori e mi lorda il viso e il collo. Il morso feroce del ferro fa mollare la presa al ragazzo; l'urto lo sbilancia e lo fa scivolare proprio dalla mia parte. Me lo ritrovo tra i piedi con le mani nude che provano a fasciare la ferita e la gola tirata in un urlo straziato.

Si dimena, lì sotto.

Si dimena e mi guarda vorticando gli occhi.

Ha il volto terrorizzato di un bambino; la baldanza che aveva solo qualche minuto prima s'è dissolta di colpo. Gli pianto un piede sul petto. Premo forte, strizzandolo a terra sotto il calzare. E mentre Ombra si tira giù il ronzino a furia di morsi e strattoni sul muso, io bevo il terrore che piove dagli occhi del nasone, la paura che ulula fuori da quella bocca.

Per la prima volta, mi accorgo che divorare il terrore nemico riempie di calore, rintuzza i muscoli, nutre uno spirito sopito, segreto, fossile. Null'altro che sete di sangue. È fame di morte. Sollevo la roncola e colpisco, di nuovo. Davanti a quegli occhi stupiti che provano a chiedere pietà. Che provano a capire perché.

Una, due, tre botte di schianto. Col filo della lama che piove a spaccare le braccia e a spruzzare sangue, schizzare in giro schegge bianche d'osso e pezzi di carne. Le urla disperate di quel ragazzino si mischiano ai ringhi di terrore e dolore del suo compare, schiacciato nell'erba da Fiamma, che gli sta divorando le budella.

Quando sollevo l'ultima volta la roncola, lascio che si blocchi a mezz'aria.

Voglio guardarlo ancora una volta in faccia.

È vivo, ancora. Latra disperato. Non lo sa, non se ne rende conto, ma le grida che vomita al cielo, adesso, sono una sola imprecazione: fai quel che devi, ma fai presto!

Mi chino. Gli afferro le ciocche di capelli e lo tiro su. Folle di dolore pesa due o tre volte di più. Digrigno e fatico per tenerlo fermo, lì di fronte. Lo rovescio e lo spingo bocconi. Lo guardo crollare a terra, sghembo, su un ginocchio e sui gomiti.

Gli giro intorno, la roncola che mi balla tra le mani.

Gli sono alle spalle, la lama all'altezza del collo. Alzo lo sguardo, cerco il buio sotto il cappuccio del mandriano.

- È questo che vuoi?

- Io non voglio niente, Vurro dei Lucani. Sei tu, a volerlo!

Alzo la roncola. Stringo i denti. Sollevo la lama e prendo fiato.

Calo, giù, furioso.

Un colpo solo. Come se fosse l'ultimo che tiro.

Un colpo solo che non basta. Perchè quel ragazzetto, lì sotto, non latra più, ma la testa gli rimane impiccata e non si stacca. Un colpo ancora, e un altro. Finché non guardo il suo volto rotolare stravolto nell'erba.

Fiato corto.

Il cuore è un rullo solo di mille tamburi impazziti. Lascio scivolare la roncola sul corpo lì sotto. Crollo coi palmi sulle ginocchia. Cerco di prendere fiato. Cerco Ombra con lo sguardo e me la trovo di fronte, attaccata al muso di quel cavallo che per terra non mulina più le zampe. Fiamma, poco più dietro, solleva il muso di sangue dal corpo dell'altro ragazzo, sfilandolo dal cratere che gli ha aperto nella pancia. Mi sollevo, dritto. Guardo l'altro sannita, rovesciato per terra, squassato e svuotato. Dovrò staccare anche a lui la testa.

Crollo su un ginocchio, mentre le bestie riprendono il pasto feroce. Inciampo nello sguardo di quella testa. Ritrovo sotto i miei, i suoi occhi. Mi chiedo se davvero, alla fine, tutti i morti hanno la stessa espressione. Trattengo a stento un conato e mi chiedo perché: questo non è il primo uomo che cancello, il primo che ammazzo.

Mentre aspetto di trovare la forza e il coraggio di staccare quell'altra testa, mentre Ombra e Fiamma continuano a saziarsi rispondendo ad un ordine antico che non governo e non conosco, faccio appena in tempo a sentire una mano poggiarsi sulla mia spalla.

Cerco le artriti di lama del Mandriano.

Al loro posto, dita diafane dall'incarnato così pallido da sembrare pietra. Ossa lunghe, foderate di pelle giovane, tesa. Unghie nere di pece e notte. Puntute. Affilate come artigli di civetta.

Vorrei alzare la fronte, gettare uno sguardo diverso al volto di quello che doveva essere solo un Vecchio, un viandante Quel testimone della morte di Marso e del primo sangue che ho sparso. Ma la voce che mi giunge, da dietro, mi spoglia di ogni coraggio.

Perchè è voce di donna.

Perchè è così profonda e lontana da poter arrivare solo da quei luoghi persi indietro, sotto, dove gli uomini non possono avventurarsi.

- Mio padre Mamerte non ti ha mai chiesto nulla. Sei tu che non hai smesso di chiedere. Mio padre Mamerte non ti ha mai chiesto nulla, ma ha chiesto a me di seguirti da lontano. E dirti che gli sei sempre stato caro.

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora