Buda ha il ventre marcio (1)

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Una voce.

Il sibilo di un aspide.

Nel buio, accanto al giaciglio, le palpebre socchiuse hanno spazio solo per leggere una bruma violacea che s'accende. Un velo leggero, quasi invisibile, nella tenebra più profonda. Il bisbiglio di vipera cresce. Sembra salire proprio da quella nuvola che ha il colore della morte.

- Vurro, figlio di Marso...

Mi metto a sedere, con uno scatto che mi avvolge la testa di nebbia.

Il pugnale. Frugo nella paglia, alla cieca, con le dita della sinistra che impazziscono, vorticano tra le stoppie, fino al manico.

- Chi sei? Mostrati serpe!

Il sibilo cessa. Si fa respiro. Debole, eppure vivo.

La bruma cresce, monta. E finisce per ricomporsi, luminescente, animata di luce propria.

In mezzo a quel luccicare basso, la figura che mi perseguita. L'ombra che mi morde i calcagni e s'aggrappa alle carni. Quella demonia che m'ha artigliato la vita e non la molla, da che ho fatto scorrere il sangue di mio padre.

Riconoscerei le sue forme tra mille. Ho ciascuno dei suoi dettagli d'orrore marchiati a fuoco negli occhi e nel cuore. Ed anche qui, nel buio della notte rischiarato solo dall'aura malvagia che si porta appresso, il suo incarnato di putredine e trapasso posso leggerlo senza nessun dubbio. Pelle di cera, pelle di latte. Pelle che non conosce sangue, lì sotto. Perché ciascuna delle vene è un rivo nero che disegna presagi d'orrore, percorsi di disperazione e lutto.

Vene e arterie sono sentieri di infiniti piccoli demoni, innumerevoli peccati in forma di formiche e larve e bachi che si animano sotto la sua scorza.

Gli occhi del mezzo cranio con cui si orna il capo, stanotte, rilucono di un verde smorto. Pulsano piano, rischiarando la stanza. La sua bocca, le labbra gonfie di un ammaliare malato, si schiudono appena in echi lontani. Suoni che arrivano dopo, quando già la bocca s'è richiusa.

- Ha il ventre marcio, la donna che t'è toccata in sorte, Vurro di Marso...

È tornata col suo vaticinio di sciagure. È tornata con la sua sentenza.

- Sparisci, megera! Oppure a catena, cagna. Taci!

Si muove. Come sempre, sospesa nella bruma che le nasconde il passo. Punta l'altro lato del mio giaciglio, quello dove riposa Buda, sotto il vello pesante del capro.

- Non fare un fiato, lamia. Sta lontana!

- Mamerte mi comanda. Il padre mio vuole che tu veda!

- Bestemmi, megera!

Non si acquieta. Non si ferma. Solo a due passi dai piedi della mia donna che riposa, decide di fermarsi, la mano sospesa, le unghie affilate puntate alla coperta.

- Il premio del tuo onore, Vurro. Guarda cosa ti portano in dono gli dei.

Senza che io possa muovere un muscolo, prima che le mie mani possano scattare e la lama si metta tra lei e Buda che dorme, è la demonia a tirare via il vello. A scoprire quello che respira al mio fianco.

- Eccolo il prezzo dell'empietà, Vurro!

Il movimento della coperta mi copre lo sguardo, come un colpo di palpebre che ruba i respiri. Quando vedo di nuovo, non è più la notte di tenebra nella mia stanza, non è più la sagoma di Buda, appena accennata dalla luce verdastra e viola che quella sciagura emana.

La visione, sotto gli occhi, è mutata.

Ed io sono altrove.

In un campo grigio, un acquitrino che solo Mephit può avere caro. Una palude di pozze melmose, acque morte. E tutt'intorno tronchi ritorti d'ulivo e mandorlo. Secchi, buttati al cielo come artigli, dita morenti che cercano una salvezza.

Il cielo: pure il cielo è metallo brunito. Pure il cielo è grigio, di un sole malato e pallido, di una luce ghiacciata. Sotto il sedere, sotto i palmi delle mani, l'umido, il lezzo di terra morta. Una zolla, in mezzo all'acqua nera, al fango.

- Eccotelo, il ventre di Buda!

La demonia è su un'altra delle zolle, lontana, al riparo dalla lama d'acciaio che stringo. La fisso. Cerco il suo sguardo, un paio d'occhi da sfidare, qualcosa da guardare per cercare io un contatto, invece che doverlo ogni volta subire. Cerco, frugo sotto il fregio di quel cranio spaccato. Ma non trovo altro che le sue labbra, sempre un respiro in anticipo rispetto alla sua voce. Quelle labbra viola che atterriscono. Quella bocca viva, in mezzo a quel sudario di pelle morta.

Non è suo, il vagito che mi punge i timpani.

Non è la voce che ho imparato a conoscere, quella che mi arriva adesso. Non è quel suono a sollevarsi dall'acquitrino assieme ai fumi, al vapore, al respiro di Mephit.

Da qualche parte, sotto, in quella palude senza luce e speranza; da quel fondo si alza un vagito. Un pigolio sommesso, flebile. Un lamento tenue, straziante. Il vagito di un essere che sta per morire.

Crollo a terra.

Mi schiaccio al suolo, striscio il viso tra le zolle, nell'erba marcia.

Cerco quel suono, come se potesse davvero venire da sotto, trasudare dalla terra. Niente.

Non è dalle profondità di quel luogo orrendo.

È tutt'attorno. È nell'aria che respiro a fatica, tra le gocce di quel vapore che la terra suda, negli sbuffi che si alzano. Quel suono è tutto intorno.

È il respiro stesso della palude. È la voce di quel luogo osceno.

- Il frutto marcio che hai piantato nella carne di Buda, Vurro. Sta germogliando...

Striscio fino al bordo di quella zolla.

Pancia a terra, il mento che si fa strada tra i ciuffi di quell'erba malata. Ogni passo mi costa fatica, ogni respiro mi azzanna il petto, da dentro. E quando arrivo a guardare, oltre la crosta, in quello stagno malsano dove galleggio, non è il mio il viso che ho di fronte.

Sull'acqua immobile densa di morte, l'immagine che si compone è quella di Buda, la mia Buda.

Le ossa gracili, il bacino magro, aperto fin quasi a spaccarsi. I muscoli di cagna affamata straziati nella schiusa delle cosce. Il collo di cerva digiuna sembra quasi scoppiare, nello sforzo di un urlo che non sa soffocare. Bianca come il sale, la sua pelle fa contrasto col sangue che la bagna, tra le gambe, dove qualcosa continua a vagire.

- Guarda tu stesso, Vurro; guarda l'orrore!

Vurro dei Lucani - Hylliria Vol.1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora