Capitolo 30

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"Fottiti tu e i tuoi stupidi ospiti!" Alzai la voce, stanca di lui. Sentii un improvviso silenzio dalla stanza adiacente, mentre lui mi guardava in cagnesco. "Sono stanca di far credere che siamo una famigliola felice, tu sei solo un approfittatore, un arrampicatore sociale. Non saresti un cazzo di niente se i miei non fossero morti. Ci tieni solo ai miei soldi, e al nome di questa cosa che tu chiami famiglia! Sai che c'è?" Risi, fuori di me ormai. "La famiglia si allarga! Avrò un bambino, anzi una bambina! Sei contento? Sono incinta!"

Se i suoi occhi avessero potuto uccidermi, lo avrebbero fatto. L'avevo fatto, avevo detto al mio peggior nemico di essere incinta, e non potevo credere di essere ancora cosciente e in piedi dopo le mie parole.

"Va' di sopra e restaci!" Mi disse a voce bassa, parlando tra i denti, mentre mi spinse verso le scale, facendomi traballare. Lo sentii fare una risatina più che falsa, mentre si rivolgeva ai suoi ospiti. "Ragazzini, le provano tutte per farci arrabbiare, eh? Cosa si inventerà la prossima volta? Che si droga?"

Arrivai in camera, traballante, la testa mi girava e mi era tornato il senso di nausea. Mi sentivo svenire, forse non era stata una buona idea stare fuori, al caldo, fino a quel momento. Feci appena in tempo a chiudere la porta e a pensare che avrei dovuto mangiare e prendere le vitamine, che svenni.

***

Ripresi i sensi che la casa ormai era vuota e sommersa dal buio. Un forte odore di alcol raggiunse il mio naso, facendomi aumentare il senso di nausea. Mi rimisi in piedi a fatica.

"Dovrai liberartene." Urlai dallo spavento, mentre il cuore mi sbatteva forte in gola.

"Cosa ci fai in camera mia?" Mi voltai verso quell'uomo ignobile, che era comodamente seduto sulla poltroncina dove di solito poggiavo le mie cose. Sorseggiava un bicchiere di liquore ambrato, aveva lo sguardo offuscato. Ignorò la mia domanda, alzandosi.

"Mi hai sentito, Karla? Devi abortire, la stessa cosa che avrebbe dovuto fare tua madre con te." Dalla sua bocca usciva veleno liquido, come al solito.

"Scordatelo. E poi ormai è troppo tardi." Era il momento, lo capii dal suo viso. Tremante, giocai nervosamente con il mio orologio, acquistato poche settimane prima. Lui fece un passo verso di me, e io uno indietro.

"Come sarebbe a dire che è troppo tardi?" Feci un respiro profondo, prima di rispondere.

"Sono quasi al quarto mese, e porterò avanti questa gravidanza, che tu lo voglia o meno."

"Sei proprio come tua madre, una gran puttana. Scommetto che ti sei fatta sbattere da uno con i soldi, proprio come ha fatto lei." Aveva alzato la voce. Non capivo di cosa stesse parlando. "Ti racconterò una storia... Avevo poco più di quindici anni e... Ero innamorato di lei." Corrugai la fronte, cercando di capire di cosa stesse parlando. Aveva appena accennato a mia madre, ma possibile che lui...? "Solo che io non avevo soldi, né una posizione, come invece mio cugino... E indovina un po'?" Si fermò per bere dal bicchiere di alcol, ingerendo tutto il liquido contenuto in esso. Ed era molto. "La puttana ha scelto Alejandro, il cugino con i soldi, con un lavoro... con il potere."

"M-ma cosa?" Chiesi confusa. Non potevo credere che quell'essere immondo fosse innamorato di mia madre.

"E io che pensavo che tu fossi una lesbica del cazzo." Passava da un discorso all'altro, seguendo i suoi pensieri sconnessi. Le mie mani tremavano. "Come si chiama il riccone, eh? Quello che vuoi incastrare."

"L-lui è - è un barista sfigato che non vuole saperne nulla." Decisi di essere sincera, tanto non mi avrebbe creduto comunque. Iniziò a ridere, facendomi stringere i pugni dalla rabbia. Rideva di me, della mia gravidanza.

"Sai cosa? Te lo insegnerò io." Corrugai la fronte senza capire, facendo ancora un passo indietro mentre lui veniva verso di me con uno sguardo indecifrabile. 

"C-cosa?" La mia voce uscì tremante, mostrando quanto fossi impaurita. 

"A farti scopare da uno ricco e potente..." Fece un sorriso perfido. "...Che in questo caso sono io." Disse lanciandosi su di me. Finimmo entrambi a terra, lui su di me che cercava di spogliarmi. Ero completamente terrorizzata.

"L-lasciami. Smettila." Lo pregavo con l'affanno, mentre cercavo di togliermi le sue mani di dosso.

"Non sono riuscito a farlo con tua madre, ma non fallirò anche con te. Non potevo sopportarti di vederti nella mia casa, ma ora ho capito. Sei qui per una ragione. Sei la mia rivincita." Mi riuscì a sbottonare i jeans, mentre con l'altra mano teneva le mie ferme. Mi inchiodava le gambe a terra con le sue, tenendomele aperte. Non volevo essere toccata da lui, dalle sue mani schifose. Chiusi gli occhi e tentai il tutto per tutto. La mia fronte colpì il suo naso, sentii uno scricchiolio sinistro mentre finalmente mi toglieva le mani di dosso per portarsele al naso sanguinante. Un po' del suo sangue finì anche sul mio volto, per colpa della forza di gravità.

Infuriato, mi tirò dei pugni in pieno viso che mi stordirono, poi mirò alla pancia, che cercai di proteggere. Alla fine portò entrambe le mani al mio collo, iniziando a stringere. Boccheggiai per la mancanza d'aria, mentre cercavo di divincolarmi, di graffiarlo, di togliere le sue mani che erano serrate sulla mia gola.

"Ti ammazzo, puttana, come ho ammazzato tua madre e tuo padre. Non ci sono riuscito prima con te, ma la terza volta è quella buona."

Affondai le unghie nelle sue mani, ma nulla, allora provai col suo viso, graffiandolo.

"Sai quanto ho dovuto sborsare per far venire giù una fottuta valanga? Anzi, due!"

Iniziavo a vedere delle macchie nere davanti agli occhi, sapevo cosa significava. Pensai alla mia bambina, dovevo provarci ancora, per lei. Chiusi i pugni e lo colpii più e più volte al volto, con tutta la mia forza. Quando centrai il suo occhio si tirò indietro leggermente, lasciando la sua presa sulla mia gola e permettendomi finalmente di riprendere aria.

Era ancora più infuriato, lo vedevo mentre mi trascinavo a distanza da lui, tossendo. Riuscii a rialzarmi in piedi e raggiunsi il mio comodino. Quando lui si lanciò ancora una volta su di me, presi il pesante abatjour di cristallo, che era appartenuto a mia madre, e lo calai con forza sulla sua testa. Cadde a terra, perdendo i sensi.

Respirai affannosamente, reggendomi al comodino, poi un forte dolore all'addome mi fece urlare, piegandomi in due dal dolore. Sentivo la mia zona intima diventare umida, non ebbi il coraggio di guardare in basso, perché avevo già capito.

Non volevo, non volevo perdere la bambina. La volevo, con tutta me stessa. A costo della mia stessa vita.

"A-aiuto, la la bambina, la bambina. Sa-salvatela." Mormorai, mentre cercavo di arrivare alla porta. Le immagini si sfocarono davanti ai miei occhi, non mi sentivo un briciolo di forza addosso. Il dolore all'addome peggiorava attimo dopo attimo. Provai a reggermi da qualche parte, ma persi ancora una volta i sensi.

Invisible Chains - CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora