53.

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Devon.

Mi mancava l'aria. Sentivo freddo. La testa mi stava per esplodere, e mi veniva da vomitare.

«Non dici sul serio, ti conosco abbastanza da sapere che stai cercando per l'ennesima volta solo di allontanarmi.» La sua voce era un sussurro impercettibile, rotta, carica di lacrime pronte a scorrere sulla sua pelle pallida. Ma sapevo bene che non avrebbe pianto, non sarebbe stata debole davanti a me, non in quel momento. Le avevo appena conficcato un coltello nel cuore, glielo leggevo in quelle iridi verdi e spente, ma per un briciolo di momento sperai che fosse abbastanza forte da salvarmi anche quella volta. «Basta, sono stufa di questi giochetti contorti che ti crei ogni volta.»

Sbattei con forza la mia mano sul muro, tanto da spaccarmi il palmo e macchiare la parete bianca di rosso. E mentre rivoli di sangue scorrevano lentamente verso il basso, l'unica cosa che riuscivo a pensare, era che la mia anima stava facendo la stessa cosa con la sua.

La stavo macchiando, in modo indelebile, ero diventato un parassita per lei. Ero diventato qualcosa che avrebbe potuto coprire, ma mai cancellare definitivamente. Sarei rimasto sempre attaccato sotto la sua pelle, sulle sue ossa.

Mi afferrò la maglietta con le mani stringendola con forza mentre i suoi occhi mi imploravano di tornare lucido e di ragionare.

Avrei potuto dire che la odiavo, che mi faceva schifo quello che provavo, ma la verità che non avrei mai ammesso era che l'amavo, che non avevo mai provato niente del genere, che mi faceva paura, che mi rendeva debole, piccolo e stupido.

«Dev.» Biascicò, con la stanchezza negli occhi.

Riluttate mi tirai indietro, ormai perso nel baratro in cui mi trovavo, non riuscivo a trovare scampo.

«Va via.»

Non ci sarebbe stato niente, eravamo destinati a finire. In un modo o nell'altro non c'era nessuna via d'uscita, quindi tanto valeva smetterla in quel momento, in cui non ero abbastanza lucido da non riuscire a lasciarla andare.

Guardai Connor, incitandolo ad accompagnarla a casa. Lui fece un passo in avanti, ma sperai che non si avvicinasse troppo, o lo avrei letteralmente ucciso, quello stronzo ficcanaso che si era permesso di chiamarla.

«Andiamo, ti riaccompagno.» Le disse, alzando un braccio verso di lei.

Rylie lo guardò per qualche secondo, poi tornò con gli occhi su di me. Qualcosa in quella manciata di secondi cambiò dentro di lei, il suo sguardo triste si tramutò in rabbia.

«Vuoi che me ne vada?» Mi spinse con le mani sul petto. Io barcollai indietro, era l'unica che poteva permettersi di schiacciarmi come uno scarafaggio. «Sono stufa.» Alzò la voce, spingendomi ancora. «Se io adesso me ne vado, se io adesso esco da quella porta senza di te, ti giuro che é l'ultima volta Devon.» La sua voce si spezzò sul mio nome, tanto da rompermi qualcosa dentro.

La guardai mentre gli occhi le diventavano lucidi e rossi, le labbra serrate in una linea dura. Non volevo che se andasse, e sapevo quanto fosse estenuate starmi appresso, ma in quel momento non ero in grado di controllarmi e ragionare con lucidità. Se c'era lei, ogni buon proposito di farmi del male andava a farsi fottere, e la voglia di aggrapparmi alla speranza diventava incontrollabile.

Aspettò che rispondessi, ma l'unica cosa che invece io feci, fu distogliere lo sguardo dal suo, che mi stava opprimendo.

«Bene.» Un sussurro, impercettibile.

Captai i suoi passi allontanarsi fino alla porta, accompagnati da quelli di Connor e il rumore di un mazzo di chiavi.

«No grazie, conosco la strada.»

Fino ai tuoi occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora