56.

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Devon.

Mi nascondeva qualcosa. Glielo leggevo negli occhi, nei gesti, nelle parole che non diceva. Era da quando aveva lasciato il reparto dell'ospedale che era strana. Forse lei pensava che non me ne fossi accorto, ma non ero tanto stupido come credeva e la conoscevo meglio di quanto pensasse.

Quando uscimmo dal locale dove avevamo pranzato era ormai pomeriggio inoltrato.

«Fa male pranzare a quest'ora.» Brontolò, stiracchiando le braccia verso l'altro. «Adesso ho bisogno di dormire.»

«Certo, con quello che ti sei ingozzata.» Scherzai, tirandole una pacca sul sedere.

Lei mi guardò arrossendo. «Devon!» Mi piaceva da impazzire quando mi rimproverava con quelle guance rosse e la voce imbarazzata.

L'afferrai per i fianchi facendola sbattere contro il mio petto. Lei ridacchiò, portandosi i capelli biondi dietro le spalle ed io mi beai del profumo dolce che emanava la sua pelle.

Mi era mancata.

Dio, se mi era mancata.

Avevo passato due giorni infernali dove il primo non avevo fatto altro che vomitare e dormire, ed il secondo l'avevo passato in una specie di trance bevendo caffè, facevo i conti con la mia vita. Mi era servito. Avevo capito cosa dovevo fare per non affondare. Allora mi ero alzato, mi ero fatto una doccia ed ero andata da lei. Se c'era lei, tutto era al posto giusto. Se mi allontanavo tutto cadeva a pezzi.
Quello che dovevo fare era restare con lei e affrontare ogni problema.

Lei era la priorità.

Lei era l'unica meta che avevo nella vita.

Lei era l'unica cosa a cui dovevo pensare.

«Sembri diverso.» Alzò una mano, intrufolando le dita tra i miei capelli.

Rimasi a guardarla, il sole le illuminava il viso ed il freddo accarezzava la pelle pallida. Era la mia meraviglia, era la cosa più preziosa che avrei mai avuto nella vita, ma ero troppo stronzo per essere troppo sdolcinato, per rivelargli quello che provavo solo a guardarla.

Non le risposi. Aveva ragione, mi sentivo diverso, ma non potevo dargli una spiegazione. Non sapevo nemmeno io cosa mi era preso. Forse, il fatto di essere stato sull'orlo di perderla mi aveva scavato dentro più del dovuto.

Mi calai sulla sua bocca, intrappolata tra me e la mia moto, la sovrastai con il mio corpo, pronto ad assaporare le sue labbra, ma prima che potessi farlo il mio telefono squillò.

Alzai gli occhi al cielo e lo tirai fuori dalla tasca.

«Ash?» Lessi confuso il nome del mio amico, una strana sensazione mi percosse la spina dorsale.

«Non rispondi?» Mi chiese accigliata, appoggiandosi alla moto e incrociando le braccia al petto.

Sbattei le palpebre e la guardai, poi mi portai il telefono all'orecchio.

«Pronto?»

«Ci sono due cazzo di pattuglie davanti casa tua Devon.» Mi informò, alzando la voce. «Che hai combinato 'sta volta?»

Un vuoto si aprì dentro di me, come una voragine. Staccai la chiamata, sentì le pupille dilatate e guardai Rylie drizzare le spalle. Aveva capito che qualcosa non andasse.

«Qualcosa non va?» Mi chiese, cercando il mio sguardo.

«Io...» Mormorai, senza sapere cosa dire. «Non lo so.» Per la prima volta nella mia cazzo di vita, non sapevo perché la polizia mi stesse cercando. «Dobbiamo tornare a casa.»

Fino ai tuoi occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora