4. Punto, linea, superficie

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La frangia di questo tappeto è parecchio consunta, soprattutto in prossimità dell'angolo su cui mi trovo io. Alcuni cordini vengono via appena li tiri un po' con due dita, non serve metterci tanta forza: ti restano in mano come pagliuzze sfilate da un covone, perché sono sottili e usurati. Per quelli grossi invece bisogna metterci un certo impegno, e star lì a strattonare finché non si sganciano dal nodo. 

Io ne ho scelto uno che è una via di mezzo, perché è spesso abbastanza da poter essere usato come corda; ma, al contempo, non è il più spesso di questa frazione di tappeto e ha pure un tratto, vicino alla base, in cui si assottiglia e diventa più liso. Insomma, me lo faccio bastare. Non c'è alcun bisogno di complicarsi la vita. 

Quindi punto il ginocchio sulla radice, premo con tutto il mio peso; ne afferro l'estremità, e poi tiro, tiro, tiro, con colpi secchi e decisi, e sbam: il tessuto di strappa. 

Bene, adesso ho una corda. Sollevo il braccio di fronte a me, la lascio a penzolare dal palmo.

Uhm. Okay, forse è troppo corto. Se ne staccassi altri due, tre, quattro, magari potrei legare i capi insieme e ricavarne una corda più lunga. Me la poggio di fianco, torno a infilare o le dita nel fascio, e rovisto al suo interno per far venire alla luce i cordini nascosti.

Certo, se Aidan la piantasse di fissarmi, magari, e dico magari, mi sentirei un po' meno sotto pressione. Se ne sta lì imbambolato da dieci minuti buoni, e il fatto che tenga tutte le lucette spente non è che cambi granché dell'impressione da condor che mi fa. Forse, se non lo conoscessi, potrei pensare che sia in stand-by. Ma, purtroppo, lo conosco bene. Lui non ci va mai, in stand-by. Non si scarica nemmeno: così come io non ho problemi di fame e di sete, lui non ha mai problemi di batteria.

«Uffa, ma che c'è...? Voglio solo farmi un'imbracatura, per tenere lo skate sulla schiena... Non importa che stai lì a guardarmi.»

Aidan non mi risponde.

«Cioè, è per una questione di comodità... Visto che ora ce ne andiamo, almeno non devo tenerlo sottobraccio per tutto il tragitto...»

Torno sul bordo del tappeto, cerco di non dargli attenzione. Afferro uno dei cordini interni: tac, tac, strappo. Bene, ora ne ho due. Sulla mano mi restano un botto di pelucchi e polvere. 

Purtroppo, Aidan è ancora lì. Non dà segni di vita.

Sospiro. «Oddio... Sì, okay, ho capito. Mi muovo.»

Aidan accende la lucina verde. Soddisfatto, si allontana oltre la pediera. 

Pessimo.

Va be'. Da quattro stringhe e tre annodature ci ricavo una corda lunga quanto la distanza che ci sta tra un gomito e l'altro. È più che sufficiente, per quello a cui mi serve. L'attorciglio un paio di volte attorno alle due estremità di uno dei carrelli. Non è il massimo, ma dovrebbe funzionare. Mi posiziono lo skate sulla schiena, con le rotelle rivolte all'indietro. Un capo della corda mi passa sulla spalla destra, l'altro sotto l'ascella sinistra. Faccio aderire bene; e stringo l'ultimo nodo davanti al petto. Fiocco. Mi sistemo il cappuccio della felpa, e... finito.

Faccio tre passi sul tappeto. 

Okay. Regge.

Solo che adesso non ho più nessuna scusa. Bisogna che mi avvii.

Mi affaccio oltre il bordo del letto.

Oh, Dio. Aidan è già là. Sta già sulla porta. Ma perché ha così fretta?

E se, per ipotesi... mi mettessi a piangere? Se mi buttassi a terra disperato e simulassi delle convulsioni? O magari basta fingere un malore leggero? In fondo, sotto a quella scorza di metallo e plastica, Aidan è molto compassionevole. Empatico, altruista. Forse mi riempirebbe di lucine rosa per consolarmi, e riuscirei a convincerlo a rimandare la partenza di un altro giorno...

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