8. Il Mentore

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Con uno slancio d'entusiasmo che non credo di avergli mai visto, il signor Upton Pierce balza fino al bordo dello scrigno e spalanca le braccia verso di me. 

«Donovan! Will... Donovan!» esclama. «Ma certo! Adesso è tutto chiaro, era... così semplice! Come ho potuto non pensarci prima?!» E richiude le braccia, come se d'improvviso tornasse in sé da quell'ondata di entusiasmo. «Oh, ma cosa fai lì? Forza, ragazzo, dai!» Mi fa cenno di avvicinarmi. «Non restare in piedi, entra! Entra pure... nel mio studio. Puoi...» Si volta a destra, a sinistra, in una serie di torsioni frenetiche del busto. «Oh, sì, sì! Puoi sederti qua!» Indica in direzione di un'altra scatolina, appoggiata sul lato opposto dello scrigno. «Ce... Ce la fai a scavalcare da solo, no?»

«E-ehm... C-credo...» Dalla mia bocca escono solo balbettii, cerco di riprendermi dallo sconcerto. Mi avvicino al bordo del portagioie. In effetti, mi arriva più o meno a metà del petto, e basta alzarsi sulla punta delle scarpe, darsi una piccola spinta e si riesce a passare dall'altra parte senza grande difficoltà. «S-sì, ce la faccio.» Un balzo veloce, e atterro nello studiolo. 

I miei piedi tintinnano contro un mucchietto di monetine gettate alla rinfusa sul fondo di legno. Al mio fianco, sulla destra, c'è una spilla di metallo, una libellula incastonata di pietruzze, e un ciondolo d'argento a forma di lettera "S", senza la catenina... Il professore, di spalle, traffica con la scatolina. È di velluto blu, e ha un bottoncino che la chiude. Cerca di ruotarla di novanta gradi, per metterla dritta. 

Qui attorno...  è proprio come lo immaginavo: il piano di cartone, che fino a un attimo fa il professor Pierce stava usando a mo' di scrivania, è tappezzato da foglietti di varie dimensioni e sfumature di bianco. Il pastello nero che impugnava quando era ancora seduto, oblungo e irregolare, è ora appoggiato lì, in mezzo a un tripudio di schemi, disegni, paragrafi, caratteri... Non cubitali, però, non scritte grandi, come quelle che stanno dentro al mio taccuino... Sono scritte di grandezza normale, stavolta. E credo che quella sia proprio la sua calligrafia.

«Ecco qua!» Il professor Pierce trascina all'indietro la scatolina per metà della stanza, si ferma una volta arrivato nel centro. La molla, la gira di qualche grado, vicina alla prima: sono due sgabelli, ora, l'uno di fronte all'altro. Si raddrizza con la schiena. «Vieni. Siediti, Donovan. Così parliamo un po'...»

Mi avvicino, un po' titubante.

Il coperchio dello scrigno, qui, funge come da bacheca. Da aperto resta perpendicolare rispetto al tavolino, e il professore ci ha attaccato i quadratini di carta con delle striscioline di scotch... Ma anche a terra ci stanno fogli manoscritti: raccolti in blocchi, l'uno sull'altro, e legati insieme con dei pezzetti di spago. 

Diamine. Florent non esagerava, con la storia delle scartoffie. 

Il signor Pierce si siede di fronte a me; si sistema gli occhiali sul naso.  La polvere scura della mina si trasferisce sulla sua pelle.

«Donovan... Ah!» Scuote la testa. «Raccontami, ti prego. Da dov'è che sei saltato fuori?»

«Ehm, io...» 

Mio Dio, cosa dovrei rispondere? Cosa ci fa, qui, il mio insegnante?! E perché ha scritto tutta quella roba? Non riesco a capire...

«Oh, ma... Aspetta...» Punta l'indice verso di me. «Sei tu il ragazzo che è stato trovato nella camera durante il sopralluogo!»

«S-sì. Credo di essere io.»

«Ma certo, certo! Sì...» Si batte due dita sulla tempia. «Ne parlavano in assemblea, qualche giorno fa. E dunque... Prima ti trovavi in un'altra stanza, con un... con un altro.»

«G-già...» Aidan...

«Per tutto questo tempo...» Scuote la testa. «E da quanto siete arrivati qui?»

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