34. Eco

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Il biancore accecante mi riempie lo sguardo e non lascia spazio a nient'altro. Il mio primo istinto è quello di strabuzzare le palpebre, come quando si tenta di abituare la vista al buio, e di cercare qualcosa, un qualunque dettaglio, per quanto minuscolo, che mi dia modo di disambiguare; ma non c'è nulla. Solo un'immensa, spietata distesa di vuoto. 

E il silenzio. Fino a un attimo fa, credevo che lo pseudo-Strathcona fosse avvolto da un'assenza di suoni surreale. Ma quello non era niente in confronto. È come se non avessi mai avuto esperienza del vero silenzio, e lo avessi scoperto per la prima volta.

«Morbus?!» grido.

E la mia voce si spande, di fronte a me, come un'onda. Per un tempo che non riesco a calcolare, continuo a sentire il riverbero dell'eco: «Morbus... Morbus... Morbus... Morbus...», che si allontana da me, sempre più flebile.

Col respiro mozzato, resto immobile finché l'onda non viene del tutto inghiottita dalla distanza, e ritorna il silenzio.

Questo è il dettaglio che mi serviva, credo. L'eco.

Non credo abbia senso aspettarsi una corrispondenza con le leggi della fisica, in un posto del genere; però è un indizio, quantomeno. Non ci sarebbe stata alcuna eco, se mi fossi davvero trovato in uno spazio infinito.

Abbasso lo sguardo verso il basso, poiché mi rendo conto che i miei piedi sono appoggiati a un suolo, tale e quale a quello su cui camminavo prima di attraversare il varco. Le mie gambe, dal polpaccio in giù, sono immerse in una sorta di nebbia priva di umidità, un po' come quella roba volatile che esce dalle macchine del fumo durante i concerti rock. Soffice e tremolante, danza attorno alle mie caviglie , lasciando appena visibile la sagoma delle scarpe da tennis. Batto il piede a terra, e spero che anche questo non produca un'eco infinito come il precedente. La nebbiolina sfugge via tutt'attorno formando una serie di cerchi concentrici, come la superficie dell'acqua quando butti un sasso in un bacinella piena.

Ora riesco a vederlo bene: il pavimento, al di sotto, è bianco; ma di un bianco diverso da quello che mi ha avvolto appena superato il varco. È un bianco solido, compatto, liscio e uniforme per ogni tratto in cui si disvela al di là della patina fumosa.

E quando risollevo lo sguardo, per proiettarlo nell'orizzonte, mi accorgo che non è vero che è tutto uguale. Ci sono sfumature diverse, linee, contorni indistinti. Non so se si stato per merito della mia intuizione, o per qualcos'altro che non è dipeso da me; ma qualcosa, senza ombra di dubbio, sta emergendo dal banco candido che aveva reso tutto indistinto.

Inizio a camminare e, a ogni passo, il fumo si solleva.

E, piano piano, inizio a distinguere i profili di grandi palazzi, poi le sagome degli alberi, gli alti tralicci del telefono. In alto, sopra ogni cosa, un punto più luminoso degli altri, come una sorta di pallido calco del sole. È come cercare di guardare una proiezione attraverso una luce accecante, con la differenza che i miei occhi non ne sono feriti, e non provo alcun istinto ad assottigliare le palpebre. Non c'è nulla, qui, capace di arrecare un disagio ai sensi. Nemmeno l'odore, che mi ricorda in modo vago quello del detersivo per i panni; e nemmeno la temperatura, che è neutra gradevole come quella di una mattina di primavera inoltrata. 

Poi, a un tratto, giunge un'eco lontana.

«Leyton... Leyton... Leyton... Non temere... Temere... Temere...»

Il suono mi passa di fianco già flebile. Mi supera, fino a sparire.

Mi si accappona la pelle.

Era una voce di donna. È stato come se qualcuno, da un'altra parte, avesse urlato, proprio come ho fatto io poco fa. E questo fosse il rimasuglio di quel grido. Mi chiedo se anche il mio "Morbus" sia passato di fianco a qualcuno, come è successo a me.

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