17. Self Insert

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«Il mondo fuori...» sussurro.

Non posso crederci. Già è un inaspettato miracolo che stiamo riuscendo a vedere il piano inferiore, e adesso, grazie a me... A me! Aidan sta spingersi all'esterno, e noi... potremo seguire il corso di tutta la sua giornata.

La casa... è molto carina. Siamo in salotto. Vicino al punto in cui finiscono le scale, c'è quella che tutta l'aria di essere la porta d'ingresso, in legno scuro. Sulla destra, un divano a tre posti, color verde pistacchio, e una poltrona a dondolo in vimini, sormontata da cuscini in patchwork. Due grosse finestre, punteggiate da gocce di pioggia, danno sul giardino posteriore, chiuso da alte siepi. 

«Oh, guardate chi c'è» ghigna Nevan, e indica una macchina nera nel margine destro dell'immagina. 

Eccolo là, il gatto domestico, acciambellato in una cesta vicino al televisore. Ma Nevan non fa non fa nemmeno in tempo a verbalizzare la cosa, che l'inquadratura slitta via impazzita, ruota come una trottola e termina sull'attaccatura dei capelli sulla nuca dell'uomo. 

Quale prontezza! Aidan è corso a nascondersi dietro di lui. Be', posso capirlo. Se ripenso a quando stava per piombarmi addosso, nel corridoio... Lasciamo stare. Tuttavia, forse non era necessario, stavolta. Il gatto dorme della grossa, abituato alla presenza degli umani.

«E quella...? Che cos'è?» Iskandiar, a un tratto, solleva il braccio e punta il dito sullo schermo. Cerca il professor Pierce con lo sguardo, poi volta il capo verso di me. Anche io posso rispondere. Al di là della testa ingombrante dell'autore che copre buona metà dell'immagine, una porta di compensato dà accesso a una stanza di cui non si riesce a intravedere che uno spicchio verticale dell'interno. Se ne sta proprio di fronte al portone d'ingresso, a due o tre passi dal tappetino di benvenuto. Uhm... Immagino che il guerrieri abbia individuato me e il Mentore come gli esperti di turno, per quanto riguarda gli elementi architettonici delle case appartenenti a questo universo. E, forse, non a torto.

«Uhm... Difficile da dire, da qui» risponde il professor Pierce.

Faccio qualche passo in avanti, mi concentro anche io sulla proiezione. Di solito, al piano terra e accanto a un salotto, la cosa più probabile è che ci sia una cucina. Ma non voglio rispondere in modo superficiale. Il Mentore non l'ha fatto, dunque non lo farò neanch'io. L'anta, aperta verso l'interno, è appoggiata contro il muro e nasconde quasi del tutto la parete, a eccezion fatta che per un'unica striscia di piastrelle color sabbia.

Poi, l'autore si muove, proprio in quella direzione. Aidan lo segue e, non appesa si sposta dalla sua posizione iniziale, anche la visuale della stanza si allarga. Eccoli lì: due canovacci, e... un grembiule. Quel grosso parallelepipedo grigio, invece, non può che essere il frigorifero.

«È la cucina» gli rispondo.

«Oh.»

«Immagino che adesso ci entreranno per fare colazione. A meno che... non vogliano farla in una caffetteria.»

Di colpo, il pensiero di Becky. Che tristezza... Per poco, non dimenticavo che anche lei fa parte della nostra ambientazione. Avrebbe potuto chiedere anche a lei, eppure il guerriero non le ha dedicato neanche un'occhiata. 

Come non capirlo, del resto? Sappiamo tutti che non potrebbe rispondere, se non a gesti e con grande fatica. Ciò nonostante, la situazione è comunque brutale, a pensarci. Non ho sentito la sua voce, da, da... Ma dov'è, adesso?

Ruoto la testa tutt'attorno, senza trovarla. Mi volto per guardarmi alle spalle, e... 

Eccola là. Da sola, in disparte, con le braccia incrociate sul petto a guardare lo schermo in silenzio, con un'espressione... abulica, priva di qualunque emozione. 

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