32. Gli incubi

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C'è una sorta di linea, a percorrere le frange del tappeto. Non si tratta di qualcosa di visibile, che si possa toccare. È solo un fatto che sta nella mia mente. Però, è lì. 

È un confine, un punto di non ritorno. Ed è reale. Lo so io, lo sa Morbus. Perché, nel momento in cui l'avrò varcato, la decisione sarà già presa. E non tornerò indietro.

Alle mie spalle, il brusio si intensifica. Mi sento addosso gli occhi dei miei compagni. Becky, Nevan, Sylvanara. Forse anche il Mentore e Iskandiar mi stanno fissando dall'alto, abbarbicati sul bordo dello scaffale. Confusi da me, rintontiti dalla tragedia. Forse si stanno chiedendo se sia il caso di seguirmi oppure no. Di bloccarmi, impedirmi di compiere una qualche sciocchezza, sulla scia della disperazione. Forse, appena si saranno ripresi dallo sconcerto, inizieranno a correre verso di me, e a urlare: "Will! Will, fermati! Che intenzioni hai?!" E mi pregheranno di esporre le mie intenzioni, per sincerarsi che non si tratti di una follia.

Ma il fatto è che è una follia. Lo è, per un sacco di motivi. E devo farla lo stesso.

Non appena il mio piede supera quella linea, l'aria si tinge di rosso sangue, e tutto il covo tace. Non ho bisogno di sollevare lo sguardo per capire che è stato Morbus a intervenire. Né ho bisogno di guardarmi indietro, per sapere che lanciato un maleficio attorno a sé – lo stesso maleficio con cui mi salvò la vita, la prima volta che ci incontrammo – e che adesso tutto il covo è avviluppato da un terrore cieco, dal quale non è possibile liberarsi.

Anche lui sapeva che altrimenti avrebbero cercato di seguirmi. E nessuno di noi due vuole che lo facciano

Io e Morbus dobbiamo parlare da soli.

Mi aggrappo a un lembo del tessuto del copripoltrona che scende morbido in ampie onde a partire dalla seduta. Morbus non attende nemmeno che io abbia raggiunto la cima. La sua voce rimbomba in un surreale silenzio, come se provenisse da un sogno.

«Will Donovan!» esclama, con una strana gioia accogliente. «Sei qui, dunque. Bene, molto bene. Mi stavo giusto domandando poc'anzi quanto tempo ancora avrei dovuto attendere, prima di vederti... venire da me. Sono lieto che sia avvenuto così presto.»

Decido di ignorare la crudeltà implicita nella sua letizia. Sono certo che ieri, quando è venuto a parlare con me, fosse già consapevole che a Kurt sarebbero rimaste poche ore di vita. E che proprio in virtù di questo, sai venuto qui. Perché la speranza di risentire di nuovo la sua voce era tutto ciò che mi rimaneva. E adesso non ho più niente.

Mi sollevo in piedi. Il mondo, attorno a noi, pare filtrato da una lente color cremisi, che fa apparire che il tessuto come impregnato di un dentro strato di sangue. E il demone, sospeso sul fondo della seduta, al centro dello schienale, si erge al di sopra di ogni cosa terrena, in attesa. I bordi della sue veste vorticano in minuscole volute spettrale, nonostante l'aria sia ferma.

«Sono pronto, Morbus» sussurro.

«Pronto... a cosa? Sii più specifico, giovane eroe.»

«Tu conosci la strada che porta a Leyton...»

«Esatto.» Morbus fa un cenno col capo. «Vedo che stavolta hai prestato attenzione.»

Faccio un passo in avanti. «Allora conducimi da lui. Dimmi come posso raggiungerlo, Morbus. Sono pronto.»

«Conducimi» ripete tra sé e sé, con ironica sorpresa. Poi, solleva il mento in aria e guarda il soffitto, come se fosse annoiato. «Hai cambiato idea molto in fretta nei miei riguardi, se passi dal minacciarmi di dar fuoco al mio quaderno a venir qui con una simile richiesta. Non che a questo punto io voglia dissuaderti, sia chiaro. Anzi, me ne compiaccio.» Si volta, e inizia a fluttuare verso destra, poi verso sinistra, come se camminasse avanti e indietro, meditabondo. «E il fatto che tu sia pronto a tornare sui tuoi passi non può farti altro che onore. Proprio... come un vero eroe. Per giunta, tu sei il primo, qui al covo, a fare una scelta sensata.»

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