16. Glitch

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Dopo aver attraversato il passaggio, nel tratto, di buio e aver gettato lo sguardo al di là dell'apertura, mi trovo di fronte allo studio, sul bordo dello scaffale. 

La stanza mi sembra in tutto e per tutto identica a come appare a ogni risveglio. Ovattato e umbratile, con quelle deboli linee di luce che filtrano dalle persiane come unico elemento che spezza il grigiore e l'atmosfera torbida che tende a rendere tra loro simili i colori. Florent sta davanti a me di qualche passo, i tacchetti rigidi piantati nel tappeto e lo sguardo proiettato verso l'alto, fisso verso un punto al centro della stanza.

Aidan è lì, sospeso nell'aria. Per poco non ci facevo nemmeno caso. Forse nemmeno gli altri ci avrebbe fatto, silenzioso e immobile com'è, con le spie spente e simile a una piccola bolla di vetro opaca, della stessa tonalità del muro. Se non fosse che eravamo tutti in attesa del suo ritorno.

Il respiro mi si mozza in gola. Ma sono sollevato. Nonostante tutto.

«Aidan!» Non so per quanti secondi resto rigido, a fissarlo rapito, con la stessa intensità di Florent; ma è la voce di Kurt a rompere la quiete. «Aidan!» Dal suo scaffale, in alto alla nostra destra, una corda viene lanciata in avanti come una frusta, sbatacchia lungo un'asse verticale della libreria. Mentre si cala giù, i palmi delle sue mani stridono attorno alla fune. Ha recuperato colore nel corso di ieri, la trasparenza è in parte svanita, eppure sembra ancora provato, ogni movimento gli costa sforzo come a un convalescente. Dopo di lui, anche altri iniziano a uscire, ma lui è il primo a corrergli incontro, a fermarsi sotto di lui, e a tendere la mano in alto, per richiamarlo a sé. 

Nessuno apre bocca, attorno a noi. Non c'è molto da dire. Ciò che appariva impossibile fino a qualche giorno fa, ora è successo. È una realtà, sta di fronte a noi, e dentro mi cresce una carica che non ho mai provato. Credo che per gli altri sia lo stesso... Abbiamo sfidato i limiti che credevamo insuperabili, ognuno ci ha messo il suo e, di concerto, ce l'abbiamo fatta, ed è come trovarsi di fronte a un prodigio. Per la prima volta, anche se per un istante, mi sento parte di qualcosa di più grande, sono una cellula di un organismo capace di cose incredibile. Sono parte del covo.

Poi, sono attraversato da una scossa di inquietudine. 

Dobbiamo ancora sapere.

Kurt non perde tempo a controllare che ci siamo tutti. Guarda a destra, a sinistra; individua me, poi Rahel, poi Becky, poi il professor Pierce, che ha appena poggiato il piede sul pavimento, alle spalle di Sylvanara, poi Iskandiar e Nevan, che si affrettano a raggiungerlo da sotto la sedia girevole. Annuisce, e si rivolge ad Aidan.

«Ci siamo» gli sussurra. «Mostraci ciò che hai visto... Aidan.»

E Aidan, con una spia verde, ruota il suo occhio di pochi gradi, in direzione del pannello laterale della scrivania. Un rettangolo di luce si proietta sulla sua superficie, poco al di sopra della cartella-palchetto. Tutte le teste sono rivolte là.

«Parti dall'inizio» dice Kurt.

E sul legno, appare la prima inquadratura della registrazione. 

Lo studio.

È lo studio stesso, come apparirebbe se tutti ci voltassimo di spalle. Aidan doveva trovarsi appoggiato sulla cartella, con l'occhio rivolto alla poltrona fiorita, mentre noi eravamo già al riparo dentro ai quaderni. Poltrona al centro, un pezzo di scrivania sul margine sinistro e un pezzo di cassettiera sul destro. In fondo, nell'angolo, il cestino.

Passano molti secondi, e nulla accade. La ripresa è così immobile che potrebbe essere scambiata per un fermo immagine. In basso a destra del rettangolo di luce, quattro caratteri bianchi e pixelati sono sovraimpressi alla riproduzione del tappeto.

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