29. Morbus

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Prima di partire per questa missione – e ormai sono passati quasi quattro giri di orologio – non avevo ancora le idee chiare su come avrei dovuto comportarmi al momento del rientro a casa. Da un lato, credevo sarebbe stato più sicuro approfittare del primo momento buono per uscire dalla tasca e raggiungere la libreria dello studio. In quel caso, avrei liberato Aidan dai legacci ed entrambi saremmo rientrati nei nostri rispettivi supporti. Per recuperare le forze, e anche per non rischiare di imbatterci in pericoli non necessari. Dall'altro, non era affatto scontato che la mia escursione nel mondo fuori avrebbe dati dei frutti, e in quel caso forse avrei potuto scegliere di rimanere sveglio per osservare il comportamento dell'autore anche nel contesto casalingo. Non si sa mai da dove può arrivare la scintilla. In ogni caso, mi sarei trattenuto al massimo fino a che non avesse spento le luci e si fosse infilato sotto le coperte.

In realtà, quando è arrivato il momento, non ce l'ho fatta. Ho continuato a osservarlo, nella penombra della camera illuminata solo dalla luce fioca della lampada da tavolo, mentre allungava il braccio alla pila dei fumetti sul comodino. Ho immaginato che cercasse me, proprio me, sulla sommità di quella pila, e ho cercato di indovinare quali pensieri gli albergassero nella mente.

Ad esempio, che le nostre esperienze sono ancora troppo distanti. Che io sono lui, e lui è me, e avrebbe potuto adeguare anche le parti di noi che sono rimaste diverse. E mi si è ribaltato lo stomaco. "No, ti prego, non farlo", ho pensato. "Mia mamma è solo andata via. Mi va bene così. Non farmelo. Non farlo anche a me". 

Poi, però, ha estratto uno dei fumetti. Quello in terza posizione, a partire dal basso. Si è messo sotto le coperte, e lo ha sfogliato per un po'. Sulla copertina, c'era un'astronave inglobata in uno spazio punteggiato di stelle.

Non ce l'ho fatta ad andare via, perché Leyton non riusciva a dormire. Anche dopo aver rimesso il fumetto al suo posto, anche dopo aver spento la luce, continuavo a sentire il suo respiro corto, il suo continuo rigirarsi da un fianco all'altro. E ogni singhiozzo, nel buio, è stato come una pugnalata. Non c'è stato un solo attimo, finché non è arrivata l'alba, in cui mi è parso che ciò che stava accadendo fosse superfluo. E, in qualche modo, non volevo lasciarlo solo. Anche se la mia presenza era invisibile. E io non potevo fare nulla per lui.

Mi sono incamminato verso il covo solo dopo che l'ho visto scendere di nuovo al piano di sotto, con l'uniforme indossata, lo zaino in spalla. E, mentre mi trascinavo Aidan lungo il secondo primo tratto del corridoio; mentre, distrutto, avanzavo a testa china, nel timore che la mia trasparenza avesse raggiunto un livello tale da potermi vedere attraverso, o di scorgere il mio teschio in una superficie riflettente, ho capito che non è stata solo la volontà di rimanere vicino a Leyton a trattenermi così a lungo lontano dallo studio. C'era anche altro.

Io non so come mostrare queste riprese agli altri.

Ma ormai sono qui. Ho sentito il colpo della porta d'ingresso riverberarsi lungo i muri, dal piano di sotto, e il motore dell'auto accendersi e partire. Manca poco al risveglio.

Inspiro piano dal naso, e chiudo gli occhi. Sono così tante ore che non parlo, che mi sembra che le mie labbra siano state unite insieme da uno strato di colla. Mi sollevo in piedi, dal bordo della cartellina-palchetto, e inizio a camminare in circolo, sul tappeto. Aida dondola al mio fianco, all'altra estremità degli spaghi come un vecchio yo-yo che si è inceppato e non riesce più a ritirare indietro la cordicina. La sua batteria è al sicuro, nella mia tasca. E penso proprio che non dirò nulla, agli altri. Non c'è bisogno che io lo faccia. Staccherò solo il nastro adesivo dalla cover di Aidan, lo rimetterò in funzione. Farò partire il video e lascerò che capiscano da sé.

«Will!» grida qualcuno, dall'alto della cassettiera. «Will, sei qui!» 

"Qualcuno"... Ma non è solo qualcuno. È il signor Pierce, l'unico insegnante che abbia mai creduto che potessi combinare qualcosa nella vita, l'ultimo punto di riferimento appartenente alla mia ambientazione. Eppure, mi sembra così estraneo, ora, che per un attimo ho faticato a riconoscere la sua voce. Ma non c'è nulla di diverso dal solito, in lui. Sono... io. Sono io.

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