In piedi accanto alla coppa, Sylvanara mi guarda con un sorriso che per un istante interpreto come ironico. Tuttavia, non lo è. Non c'è traccia di presa in giro nella sua espressione.
Tiro su col naso. Un pizzicore mi pulsa agli angoli degli occhi. Sbatto le palpebre, cerco di dissimulare la mia tristezza, ma forse sto solo peggiorando la situazione. Ora penserà che stavo piangendo.
«E-ehm... Sì, sì» borbotto, quasi più imbarazzato da quella specie di sguardo materno e, al contempo, stranamente freddo e altero, piuttosto che dall'idea che volesse deridere il mio momento debolezza. «S-stavo... Stavo cercando il professor Pierce, però, e-ehm...» provo a spiegare, subito sulla difensiva, «non c'era, e allora... mi sono messo seduto qui, per... per aspettarlo...»
«Non preoccuparti. Vedrai che a un certo punto si farà vivo.» Si distacca dal soprammobile e si avvicina a me, a passi lenti, percorrendo il centrotavola di trina. Attorno alle nocche della mano destra tiene attorcigliata la cinghia di una faretra di cuoio, piena zeppa di frecce con la punta rivolta verso l'interno, che dondola piano al di sotto del suo ginocchio. «Forse, però, ti toccherà aspettare. A volte si sveglia sul tardi.» Giunge alla pila delle agende, e appoggia a terra la faretra, dietro lo spigolo dell'ultima costina.
«Non importa, tanto non ho niente da fare.» M'infilo le mani in tasca, guardo a terra, come se con l'interruzione del contatto visivo potessi davvero sparire dal suo orizzonte, e dare il minor fastidio possibile.
Lei non si muove. Sento il suo sguardo addosso, anche se sono girato. Pensavo che dopo avere fornito una spiegazione alla mia presenza se ne sarebbe andata per i fatti suoi. E invece, è ancora qui.
«Ma sei sicuro di stare bene? Perché, sai. Non sembra.»
«S-sì.» Alzo le spalle. «Davvero. S-sono... Sono solo preoccupato per Aidan, e... per la missione.»
«Già. Lo siamo tutti.» Spalle dritte, mento sollevato, Sylvanara incede di qualche passo e si ferma di fronte a me. Ha un che di regale – lo colgo pure se insisto a guardare per terra – che pare lei sia l'unica a potersi permettere. Credo che qualunque altra donna, cioè, umana, che si atteggiasse così finirebbe col sembrare ridicola. E, forse, in realtà pure lei viaggia sul confine del macchiettistico, solo che io non ci faccio caso per via della sua... sì, be', insomma... della sua folgorante bellezza.
Indica vicino a me. Non capisco. Guardo il dito. Sono stupido?
«Se vuoi, posso tenerti compagnia per un po', mentre aspetti.»
Oh... Voleva solo chiedermi il permesso di sedersi qui. «Ehm. S-sì, va bene.» Trascino pure le natiche di lato per farle spazio, anche se non servirebbe. C'è tutta la costina, a sua disposizione.
Lei, però, sembra apprezzare il gesto. Sorride, si afferra i lembi della lunga gonna mentre si volta di spalle e si siede alla mia destra, a un palmo di distanza. Accavalla le gambe, e il tessuto setoso scende giù dal ginocchio come una cascata. Intreccia tra loro le dita affusate, tutte terminanti in unghie perlacee, e dalla forma ovale. «È solo questo a renderti così angustiato...?» Mi osserva in tralice, con sguardo indagatore, come se avesse colto qualcosa di più, qualcosa che non ho voluto dire, e aspettasse solo la mia confessione.
Mi sento a disagio. Cerco di fare mente locale. Quante volte ho interagito con lei? In quante circostanze lei era nei paraggi, mentre succedevano le cose? Lo sforzo di anticipare l'idea che potrebbe essersi fatta di me mi manda in tilt il cervello.
«C-come...?» riesco solo a sussurrare. «Perché me lo chiedi?»
Lei ispira dal naso. Guarda di fronte a sé. «So che tu e Aidan siete arrivati qui insieme» dice seria. «Prima, eravate solo voi due. Me lo ha raccontato Nevan. Quindi... non metto in dubbio che siate uniti da un indissolubile legame di affetto...»
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Incompleti
FantasiWill Donovan ha 17 anni. Sa di vivere a Vancouver, nel quartiere di Downtown Eastside. A parte questo, non ricorda nient'altro della sua vita. Da quando è finito 𝘲𝘶𝘪, la sua memoria è incompleta. E tutto ciò di cui gli importa è tornare a casa.