28. Sylvia

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«Leyton...?»

Una voce rauca, da adulto, proviene dalla zona della porta. La quiete in cui era immersa la stanza viene infranta all'improvviso. Se anche ci fossero stati dei passi ad annunciare il suo arrivo, o, non so, il cigolio della porta a segnalare il suo affacciarsi da corridoio, io non ho sentito niente. 

Leyton non si è mai mosso dalla sua posizione: da sotto le frange della trapunta posso ancora vedere i suoi talloni, bianchi e secchi, e le dita dei piedi rivolte in direzione della finestra. Se ne sta lì, seduto sul bordo del letto, senza rispondere a suo padre.

Non ho il coraggio di fare neanche un passo. Ho percorso la quasi totalità del finto-bunker; se non ci fossero state interruzioni, a quest'ora sarei arrivato alla pediera, mi sarei appiattito contro il legno, mi sarei spostato con cautela di lato e mi sarei sporto verso l'esterno, da un lato o dall'altro, ancora non avevo deciso. Ma, adesso, sono bloccato sul posto, con le orecchie tese. Voglio captare tutto il possibile di ciò che si diranno. Ogni dettaglio può essere utile.

Ma perché Leyton non risponde...? Eppure, è impossibile che non l'abbia sentito chiamare.

Poi, un sospiro.

«Hm...?» Nient'altro che un mugolio. Il metallo che regge insieme le doghe cigola solo al suo impercettibile movimento.

Il padre, allora, avanza di qualche passo, leggero e misurato, dentro la stanza, quasi temesse di fare rumore. Mi accovaccio, e poggio il ginocchio al suolo, nel tentativo di riuscire a vedere qualcosa. Al di là del lembo di coperta che penzola sul lato destro del letto, i suoi mocassini stringati sbucano da dietro lo spigolo dell'armadio, lo stesso a cui io e Aidan abbiamo trovato appesa l'uniforme, un sacco di tempo fa. Spariscono subito dopo, oltre la pediera, insieme alle caviglie avvolte nei pantaloni a coste. 

«Ho già chiamato la scuola, per avvisare che stamattina entrerai più tardi. Ricordati di mettere questa nello zaino.» Un oggetto sottile, forse un pezzo di carta, produce un leggero fruscio nell'aria, come se venisse sventolato. «È... la giustificazione, già firmata. Te la metto qui, va bene...?»

«'Kay» mormora il ragazzo. Un altro mugolio. Stavolta, però, molto più simile a una parola intera. 

Per svariati secondi non succede nient'altro. I mocassini non risbucano mai dall'altro lato della pediera... e questo credo significhi che suo padre si è proprio fermato lì, ai piedi del letto. Poco più avanti, anche se non posso vederla, so che c'è lo spigolo della scrivania, con la sua lampada da tavolo, in plastica arancione. Immagino che sia lì che il signor Gran ha appoggiato il pezzo di carta. Poi, con la stessa lentezza con cui è arrivato, si riavvia verso la porta.

«Ah.» E si ferma all'improvviso, un attimo prima di sparire di nuovo dietro l'armadio. Ruota un po' i piedi nella mia direzione. « Fa un po' freddo, fuori. Metti il giaccone pesante.»

Stavolta, però, non attende di ricevere risposta. Se ne va nel corridoio, lasciandosi la porta aperta alle spalle.

E Leyton, ancora, non si è mossa da dov'è.

Ispiro piano. È strano. Questo posto... è così familiare, per me. Potrei orientarmi a occhi chiusi. So che Leyton ha il viso rivolto alla finestra, ad esempio, anche se non la vedo. E so che suo padre ha appoggiato la giustificazione sulla scrivania, anche se tutto si è svolto al di là dello spesso pannello in legno della pediera. Anche qua, sotto al letto... è tutto come lo ricordavo. A parte per la quantità di ciucci di polvere a terra, che nel frattempo sono aumentati a dismisura. Eppure... non ho mai fatto questa esperienza, prima di adesso. E tutto mi sembra diverso

Questa stanza è sempre stata occupata solo da noi. Da me, da Aidan, e dalla Bambina. A parte per la breve incursione di Nevan, non ci ho visto dentro... nessuno. Nessuno che avesse dimensioni proporzionate al mobilio, in grado di sedersi, di aprire la porta, di appoggiare cose sulla scrivania. E... sento che mi dà fastidio, a livello viscerale. Mi sembra quasi... un'intrusione, una violazione di domicilio. Eppure lo so, che questa è casa loro.

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