43. Rimembranze (La terza bugia)

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Un anno e tre mesi prima.


Pietro camminava a testa china, il cappuccio nero che gli copriva il capo. Un altro giorno era passato e non aveva ancora trovato un modo per fuggire dalla scuola: non c'erano porte che dessero sull'esterno, e quelle che sembravano farlo non conducevano in alcun luogo; le finestre erano troppo piccole e spesso sbarrate. Non riusciva a capire come avesse fatto ad entrare a scuola la prima volta: aveva dei ricordi confusi di alcuni ufficiali di polizia che l'avevano lasciato davanti a un cancello, poi la sua memoria si interrompeva e ripartiva dal suo primo incontro con Diego e con i Sorveglianti.

Sospirò, dovevano esserci delle porte che conducevano all'esterno, altrimenti come facevano i nuovi studenti ad arrivare? E il cibo?

Un rumore leggero di passi lo distolse dai suoi pensieri: non avrebbe dovuto trovarsi in quell'ala della scuola, doveva nascondersi. Si guardò attorno frenetico e si infilò nella stanza più vicina chiudendosi poi la porta alle spalle.

Era finito in un magazzino, pieno di armadi e di scatole stracolme di carta grezza.

Sentì delle voci e in preda al panico si precipitò sul fondo della stanza, spalancò uno degli armadi, si infilò sopra alcuni mucchi di carta e richiuse le ante dietro di sé.

La porta del magazzino si aprì proprio in quel momento. «Ti eri dimenticato di chiudere a chiave» borbottò una voce stridula.

«Tanto questa zona è interdetta agli studenti, chi vuoi che entri» rispose un'altra.

Pietro trattenne il fiato: erano le voci dei Sorveglianti. Si immobilizzò e allontanò lentamente la faccia dalla piccola fessura fra un'anta e l'altra, doveva resistere solo pochi minuti, forse anche trenta secondi, tempo che i Sorveglianti prendessero quello per cui erano venuti e se ne andassero. Probabilmente qualche professore aveva finito la carta nel suo laboratorio e aveva chiesto loro di procurargliene ancora, o qualcosa di simile.

Click.

Pietro smise di respirare, i Sorveglianti avevano chiuso la porta chiave: che lo avessero visto? Volevano impedirgli di scappare? Volevano ucciderlo come quegli uomini avevano fatto con Diego?

Il sangue che gli scorreva nelle vene gli pareva gelato, il respiro riprese a correre affannato. Chiuse gli occhi, avrebbe accettato il suo destino: sarebbe morto come Diego e una piccola parte di lui ne era immensamente sollevata. I sensi di colpa che l'avevano dilaniato per settimane si erano risvegliati di colpo: perché Diego era morto e lui no? Non meritava di essere ancora in vita, mentre Diego non lo era; era solo giusto che anche lui morisse sperimentando lo stesso dolore che era capitato a Diego e, anzi, avrebbe dovuto soffrire ancora di più.

Trenta secondi passarono, probabilmente i Sorveglianti si stavano preparando a colpirlo.

Passò ancora un minuto, forse l'attesa faceva parte della tortura.

Un altro minuto.

Cinque minuti.

Pietro aprì gli occhi e si avvicinò alla fessura fra le due ante, trattenne il fiato: i due Sorveglianti erano distesi sul pavimento. Che fossero svenuti? Allora non l'avevano visto, non sapevano della sua presenza lì, doveva solo aspettare che si riprendessero e poi, quando fossero usciti, se ne sarebbe potuto andare anche lui.

Pietro rimase fermo nell'armadio fra le pile di carta, lanciando di tanto in tanto occhiate attraverso la fessura fra le ante per vedere se i Sorveglianti si fossero ripresi.

Ad un certo punto notò che le dita dei due si stavano muovendo, sembrava che... si stessero aprendo velocemente, che sfarfallassero come lampadine. Socchiuse gli occhi per veder meglio: i vestiti dei Sorveglianti erano stranamente bassi, troppo poco pieni, quasi si stessero svuotando, le loro scarpe non stavano perpendicolari al suolo, ma erano sbilanciate in avanti.

La Scuola dei DemeritiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora